Giro d’Italia, Saronni: «Così ho scoperto Pogacar. Moser? Pace armata»

PADOVA «Di Tadei Pogacar mi colpirono la faccia da bambino e il carattere da adulto. Nel suo sguardo, a 19 anni, c’era una determinazione feroce». Gorizia, 8 settembre 2018. Beppe Saronni, due volte re del Giro, manager del neonato Team Uae, posa per la prima volta gli occhi su un corridorino sloveno, stella di una squadra Continental di Lubiana, cucciolo di caimano. Pogi ha appena vinto il Giro del Friuli, dopo essersi annesso il Tour de l’Avenir. La grande promessa del ciclismo mondiale incontra il grande ex del ciclismo italiano. Le basi per la vittoria del Giro d’Italia, che il migliore sigillerà domani sul Monte Grappa e celebrerà domenica a Roma, nascono lì.

«Pogacar era già così da junior»

Saronni, come creò quel primo incontro?
«La storia tra Uae e corridori sloveni parte da lontano: Lubiana attua politiche intelligenti che aiutano lo sport, ecco come nascono i campioni, non solo delle due ruote. Con me alla Lampre correva Andrej Hauptman, il vero scopritore di Tadej. Un giorno mi chiama: Beppe, c’è un ragazzino sloveno che devi vedere. Okay, dico. Ma sa quante segnalazioni arrivano? Hauptman insiste: organizziamo. Parto per il Friuli, in anonimato per non creargli troppe aspettative. Vedo Pogacar pedalare in gara e, wow, mi si apre un mondo».

Cosa la colpì?
«La freschezza del ragazzo: in corsa giocava, si vedeva che si divertiva da pazzi e in salita, tac, con una pedalata leggera, senza una smorfia di fatica e senza alzarsi sui pedali, se ne andava. Come lo vedete oggi, serafico nella sua forza, era già da junior».

Pogacar finì immediatamente sotto contratto?
«Non subito. Gli feci firmare un accordo privato con il quale mi impegnavo, nel giro di due anni, a trovargli una squadra importante. Non fu difficile. Lampre divenne Uae: il primo gennaio 2019 Pogacar era un nostro corridore. Lo notavi dallo sguardo, dall’atteggiamento: era già pronto. In più era cortese, simpatico e, ci tengo a dirlo perché oggi non è così scontato, educato. Non aveva bisogno di essere guidato: aveva idee chiarissime, sapeva già tutto. È la caratteristica dei grandi».

Nel 2024, a 25 anni, re di due Tour e padrone del Giro d’Italia, forse Pogacar sa addirittura troppo: quando l’ha visto tirare la volata al compagno Molano a Napoli cosa ha pensato?
«Che è intelligente: Tadej sa che un leader ha bisogno dei compagni di squadra. Lui vince ma gli altri lavorano per lui tutto il giorno per 21 tappe. E allora fai in modo di creare un clima, un’amicizia. E di restituire il favore, quando puoi. Potrebbe risparmiarsi, non correre rischi. E invece tira lo sprint sul lungomare. Ha la gamba e la lucidità per poterselo permettere».
Quindi non ha sbagliato.
«Hanno ragione Baldato e Marcato, i suoi diesse: lo vorrebbero più prudente, ma non si può imbrigliare un purosangue come Pogacar».

Può diventare il più grande di sempre?
«Il rischio c’è. I confronti tra epoche sono sempre difficili: dai tempi di Merckx è cambiato tutto. Però il paragone con il carattere di Eddy regge: la fame è la stessa».

Ha fatto pace con Moser, nel frattempo, Beppe?
(ride) «Con Francesco è difficile fumare il calumet della pace. Diciamo che c’è una tregua. Molto armata».