Gratteri a Twin Peaks col superclan dei calabresi: tutto è doppio in questa storia

Meno di due mesi fa, a ottobre 2023, abbiamo assistito per giornate intere allo stucchevole teatrino dei saluti all’ormai ex procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Dopo questi sette anni di “regno” del magistrato, la Calabria è più in ginocchio di prima, la massomafia comanda in tutti i Comuni – che infatti vengono sciolti per mafia quasi al ritmo di uno al mese soprattutto in provincia di Vibo – senza che Lui abbia risolto qualcosa… Alla Regione Forza Mafia ha vinto addirittura due volte durante i sette anni gratteriani e nelle città calabresi e soprattutto nelle Asp la corruzione dilaga. Ma qualcuno continua a dire che Gratteri ha “cambiato” la Calabria. Vi spieghiamo perché non è così. 

Sono ormai più di 30 anni che in Italia e non solo in Calabria si indaga sul superclan dei calabresi, come lo definisce Giorgio Barbacetto ovvero su quella cupola massomafiosa o se preferite comitato d’affari politico-affaristico che da più di tre decenni ormai gestisce gli appalti in Calabria e pilota i finanziamenti dello Stato e dell’Unione europea. Nella depurazione delle acque, negli aiuti alle aziende, nell’informatica, nella sanità…

Una storia che ci ammorba ufficialmente dall’inizio degli anni Novanta quando il magistrato Agostino Cordova per primo aveva combattuto la massomafia calabrese passando poi il testimone a Salvatore Boemi e a Luigi De Magistris prima di arrivare a Gratteri.

Gli ingredienti (i soliti) sono i soldi, la politica, il potere. Ma declinati in modo inedito: borsoni di denaro nascosto sotto le camicie, una banca compiacente di Milano, importanti politici di Roma, grossi finanziamenti da Bruxelles, appalti truccati, una girandola di società, ripetute fughe di notizie, magistrati infedeli, alti ufficiali della Guardia di finanza ma anche di carabinieri e polizia, odore costante di servizi segreti, grembiulini massonici e tante, tante telefonate (intercettate).

La maxi inchiesta “Rinascita Scott” di Gratteri sulla ’ndrangheta vibonese piomba sull’opinione pubblica calabrese il 19 dicembre 2019, quando manca meno di un mese alle elezioni regionali del 20 gennaio 2020. Più di 400 indagati, 334 misure cautelari, 15 milioni di beni sequestrati, tremila militari impiegati.

Non è più ‘ndrangheta: gli uomini d’onore adesso sono i big del mondo imprenditoriale, finanziario, politico legati tra di loro grazie a una fitta rete di complicità e intermediazioni che fanno capo alla massoneria (legale e “deviata”) e infiltrano le professioni, l’amministrazione pubblica, le banche, il ceto politico e non certo ultimi i tribunali.

Ma come abbiamo visto il teorema in verità non è nuovo: è il medesimo su cui avevano lavorato Agostino Cordova a Palmi e Salvatore Boemi a Reggio Calabria prima che nella procura di Catanzaro arrivasse l’allora giovane sostituto Luigi De Magistris, bloccato dal suo procuratore capo più o meno come era accaduto negli anni precedenti ai suoi colleghi.

Stavolta Gratteri era il capo di se stesso ma evidentemente qualcosa non funziona come dovrebbe perché alle elezioni regionali il voto non è minimamente condizionato dalla retata: vincerà Forza Italia e dopo la morte di Jole Santelli vincerà ancora Forza Italia, che in teoria dovrebbe essere il partito più penalizzato dall’inchiesta di Gratteri. Insomma, la testa del serpente non è stata staccata proprio per niente. E il superclan dei calabresi continua imperterrito a vincere e a riciclare denaro. 

Per una migliore comprensione dei fatti, partiamo da qui.

“Problemi giudiziari in Regione? Non lo escludo. L’avvicinamento di forze criminali alla politica regionale è forte. In tutta la campagna elettorale non ho mai partecipato a una cena e non sono mai andata a casa di qualcuno, ho fatto solo incontri pubblici”. Le dichiarazioni della povera Jole Santelli alla trasmissione di Peter Gomez “Sono le Venti” sul Nove del 15 maggio 2020 avevano definitivamente confermato che c’erano indagini aperte sulla campagna elettorale per le Regionali di qualche mese prima e non solo da parte della Dda di Catanzaro ma anche della Dda di Reggio Calabria e in particolare dei procuratori Gratteri e Bombardieri. Ma poi non si era andati oltre il minimo sindacale, da una parte e dall’altra, e alle elezioni successive alla morte di Jole Santelli, il voto si è ripetuto nella stessa maniera, quasi chirurgicamente.

GRATTERI A TWIN PEAKS 

Quando si pensa alla televisione degli anni ’90, è difficile non pensare a “I segreti di Twin Peaks”, serie televisiva di culto, entrata di prepotenza nell’immaginario collettivo degli adolescenti di una volta, oggi adulti. La vicenda ruota intorno alle indagini che si sono svolte in seguito all’assassinio di una giovane ragazza, Laura Palmer, in una cittadina fittizia dello stato di Washington, la ormai mitologica Twin Peaks (51.201 abitanti, come recita il cartello nella sigla) dove piomba il personaggio principale, l’agente FBI Dale Cooper. La serie creata da David Lynch, seppur kitsch, surreale, talvolta grottesca, a tratti spaventosa, è entrata nell’Olimpo dei più grandi spettacoli di tutti i tempi. Cosa c’è dietro a questo indiscutibile capolavoro?

Il tema del doppio è sempre stato un punto cardine della filosofia di Twin Peaks. Moltissime persone, immaginiamo, hanno scoperto la parola doppelganger (che significa sosia, doppio, alter ego, come volete) non sui libri ma vedendo la serie. E’ quello del doppio è un tema che si trova ovunque. A cominciare dai due Cooper, Twin Peaks è il doppio di sé stesso e non solo nel titolo dove i picchi gemelli, quindi ancora fratelli, sono ancora doppi.

Torniamo in Calabria. La prima ad associare Gratteri a Twin Peaks è la giornalista Ida Dominijanni, che in un articolo su L’Indipendente scrive:

“… Per la prima volta, a Vibo una manifestazione spontanea festeggia la retata contro una delle cosche più potenti e radicate della regione: è il segno di un sentimento di liberazione e di un desiderio di legalità, ma è un segno doppio, com’è doppio quello della manifestazione in sostegno di Gratteri, perché non c’è mai da festeggiare troppo quando un’esigenza di libertà si esprime solo attraverso il linguaggio penale e il desiderio di legalità si affida solo a un procuratore. E c’è da festeggiare ancora meno se il procuratore in questione (Gratteri, ndr) riceve in pompa magna e in piena campagna elettorale l’ex ministro dell’Interno e accetta di diventarne un’icona da sbandierare.

Tutto del resto è doppio in questa storia, proprio come a Twin Peaks. Prima che scatti la “Rinascita Scott” il capoluogo della regione è già ferito da “Gettonopoli”, un’altra inchiesta della procura che mette sotto indagine l’intero consiglio comunale per le truffe consumate da alcuni consiglieri incassando gettoni e rimborsi non dovuti per l’attività simulata nelle commissioni permanenti: l’inchiesta, su cui “l’ottimo amministratore” Abramo tace per settimane, è sacrosanta ma rischia di fare di ogni erba un fascio e di gettare l’ombra del sospetto anche sui consiglieri del movimento Cambiavento, , l’unica forza di opposizione che abbia delineato negli ultimi anni un’alternativa praticabile per la città…

Ma quando esplode l’inchiesta anti-’ndrangheta la ferita diventa una voragine. Di fronte all’arresto e alla pesantezza degli addebiti che incombono su una figura chiave dell’inchiesta – Giancarlo Pittelli, avvocato molto radicato in città, ex parlamentare di Forza Italia traslocato in Fratelli d’Italia, già coinvolto e prosciolto nell’inchiesta di De Magistris, cui Gratteri attribuisce ora il ruolo di intermediario tra la cosca Mancuso, la massoneria, il mondo degli affari e la magistratura – il capoluogo oscilla tra l’indignazione e l’incredulità. Gratteri è l’uomo giusto nel posto giusto al momento giusto per alcuni, è l’ennesimo caso di protagonismo mediatico dei pubblici ministeri per altri.

C’è chi abbraccia il suo teorema e chi ribatte che, come diceva Sciascia, “se tutto è mafia niente è mafia”. C’è chi in nome del garantismo ne contesta i metodi – arresti a strascico sovente revocati, conferenze stampa sopra le righe, propositi rivoluzionari inappropriati, diritti degli indagati incerti – e c’è chi in nome del garantismo replica che a calpestare i diritti di chiunque è la ’ndrangheta e non chi la combatte. Sfugge agli uni e agli altri che proprio il significato del garantismo è una delle poste in gioco della “Rinascita-Scott”, Pittelli essendo un esempio paradigmatico della torsione di senso che il garantismo ha subìto in epoca berlusconiana diventando innocentismo e pretesa impunità. E sfugge a chi guarda da fuori quello che avviene in Calabria, il cambiamento nella percezione della ’ndrangheta che l’inchiesta di Gratteri provoca soprattutto nella borghesia urbana: una mafia non più solo locale-globale, cioè radicata in territori arcaici e ramificata in mezzo mondo, ma infiltrata nel tuo posto di lavoro e nella scrivania di fianco alla tua.

L’effetto finale è di uno sgomento e di un disorientamento che non trova sedi di elaborazione politica collettiva, perché la campagna elettorale per le regionali parla d’altro o di nulla…”. 

Dopo la morte di Jole Santelli,  gli arresti di Franco Talarico (assessore al Bilancio, condannato in primo grado a 5 anni e al quale proprio l’altro ieri in Appello la pena è stata “provvidenzialmente” ridotta a 1 anno e 4 mesi) e di Mimmo Tallini, addirittura presidente del Consiglio regionale (poi scarcerato a stretto firo di posta e accolto dagli “applausi” dei suoi colleghi…), sembravano essere state solo le prime conferme perché era ed è del tutto evidente che i “problemi” della Calabria non possono essere soltanto la mafiosità di Talarico e Tallini.

E invece tutto si fermerà lì, sotto il profilo dei “colletti bianchi” che contano, perché il reso sarà tutta una sfilza di fallimenti.

VIBO VALENTA: VITO PITARO

Ora ci spostiamo a Vibo Valentia. Nella lista “Santelli Presidente” un nome “degno” di nota è quello di Vito Pitaro, oggi folgorato sulla via del centrodestra ma in passato consigliere comunale di Rifondazione Comunista, assessore socialista e dirigente del Pd. A 3800 euro al mese, inoltre, per cinque anni Pitaro è stato capostruttura del consigliere regionale del Partito Democratico Michelangelo Mirabello che, però, è rimasto fedele al centrosinistra ed è candidato nella lista “Democratici progressisti”. Ma Pitaro, nel vibonese, è noto soprattutto per essere un fedelissimo dell’ex parlamentare del Pd Brunello Censore la cui candidatura è stata bloccata dall’imprenditore Pippo Callipo.

Nel gruppo si notano anche Vito Pitaro e Brunello Censore

Insieme, Pitaro e Censore compaiono nelle carte dell’inchiesta “Rinascita” che, il 19 dicembre 2019, ha portato all’arresto di 334 persone considerate affiliate o contigue alla famiglia mafiosa Mancuso di Limbadi. Nella richiesta di arresto, i pm riportano alcune frasi dell’ex consigliere regionale Pietro Giamborino, finito ai domiciliari. Il politico locale è stato intercettato mentre parlava di Bruno Censore. Il deputato del Pd, “secondo le considerazioni di Giamborino – scrivono i pm – avrebbe condotto la campagna elettorale (le politiche del 2018, ndr) con il supporto di Pitaro Vito ed entrambi si sarebbero avvalsi dell’appoggio di persone ‘ad alto rischio’, esponenti della criminalità locale, per garantirsi il bacino di voti”. E poiché questa gente è stata così spavalda da ricandidarsi, c’è da pensare che non abbia fatto altro che confermare tutto l’impianto accusatorio dell’inchiesta “Rinascita”. Con il paradosso che l’inchiesta però non li ha colpiti, tant’è vero che si ricandidano. 

VIBO VALENTIA: MANGIALAVORI E LA FERRO

Pietro Giamborino da Vibo Valentia è uno degli uomini-chiave del processo Rinascita Scott. Forse non come Pittelli ma certamente ci siamo vicini. Ex consigliere, assessore e presidente del consiglio provinciale di Vibo Valentia, ex consigliere regionale e comunale, è stato un volto di primo piano nello scenario politico vibonese e calabrese. I pentiti Andrea Mantella e Raffaele Moscato lo accusano apertamente di essere uno ‘ndranghetista. Affiliato alla locale di Piscopio ma sostanzialmente intraneo al clan Mancuso. Pesano, sulla sua figura, parentele ingombranti, iniziando da quel cugino, Giovanni Giamborino, che gli investigatori indicano come il faccendiere di Luigi Mancuso, il “capo dei capi” della ’ndrangheta vibonese.

Oggi Giamborino è ridotto peggio dell’uomo nero. Lo scansano tutti, persino chi fino a qualche mese prima del suo arresto “garantiva” per lui e adesso lo identifica come il male assoluto. Funziona così nel fantastico mondo dei colletti bianchi, specie se sei un imprenditore funzionale alla massomafia e hai un sacco di attività che devono “camminare” grazie agli amici degli amici. Cercano di renderlo inattendibile in tutti i modi perché sanno bene che non è solo indagato ma anche testimone e per il momento sono uscite fuori solo le cose più grossolane e pacchiane o quelle che convengono ai manovratori. In particolare, quelle sulle elezioni politiche del 2018 che ci raccontano una realtà squallida del mondo politico calabrese.

Pietro Giamborino

È il 23 febbraio 2018, Pietro Giamborino è in auto con un amico. È un dialogo lungo e articolato. Si parla delle ambizioni di Giuseppe Mangialavori, Forza Italia, che sarà eletto senatore nel collegio plurinominale Calabria e che punta ad un exploit di consensi Mangialavori, strategicamente, avrebbe appoggiato – come emerge dalle intercettazioni – la candidatura di Wanda Ferro, first lady di Fratelli d’Italia, poi eletta deputata nel collegio uninominale 6.

Un quadretto viscido che descrive in pieno i contatti tra la ‘ndrangheta e la politica e dovrebbe far arrossire parlamentari come Giuseppe Mangialavori e Wanda Ferro, che nonostante quanto emerge sul loro conto stavano ancora dentro la Commissione Antimafia (!) protetti dal loro complice Nicola Morra e vanno ciarlando ancora di legalità insieme al loro sodale corrotto destinato a diventare presidente della Regione, il parassita sociale legato anche lui a doppio filo alla massomafia, Robertino Occhiuto. 

Ma ecco cosa emerge dalla informativa dei Ros all’interno dell’ordinanza del processo Rinascita Scott. La preoccupazione di Mangialavori è, ovviamente, per il sostegno in vista delle Politiche 2018. Il progetto è quello di riportare il faccendiere del clan Anello di Filadelfia nonché architetto e consigliere comunale di Vibo Francescantonio Tedesco nell’alveo di Forza Italia. I due, secondo le sintesi delle conversazioni intercettate, «parlavano di organizzare un incontro per pianificare il riavvicinamento a Mangialavori del gruppo (Vibo Unica), di cui faceva parte Tedesco, per un appoggio elettorale a scapito di Bruno Censore (esponente e candidato del Partito Democratico). Tedesco suggeriva le mosse che Mangialavori avrebbe dovuto fare: fingere di ignorare Tedesco il quale, da parte sua, avrebbe attuato una finta resistenza al riavvicinamento salvo cedere per non “impiccarsi ad una questione di principio”». “House of Cards” alla vibonese con vista sul Parlamento.

La vista, però, si apre a incontri scomodi e relazioni pericolose. L’architetto, infatti, «ipotizzava di organizzare un incontro tra il boss Rocco Anello e Giuseppe Mangialavori nel corso del quale a quest’ultimo avrebbero entrambi chiesto, ironicamente, delle spiegazioni» rispetto a una presunta «mancanza» della quale il futuro parlamentare si sarebbe reso responsabile nei confronti della moglie di Tedesco. Il riavvicinamento si concretizza e, quando le elezioni si avvicinano, il sostegno per Mangialavori è assodato.

E nel progetto rientra – lo si evince da una chiamata tra Giovanni Anello e Maurizio De Nisi (ex presidente della Provincia di Vibo del quale tratteremo in seguito) – l’appoggio a Wanda Ferro («Noi a chi appoggiamo?», chiede Anello. E De Nisi risponde: «Wanda»).
Questo il passaggio nel decreto di fermo: «L’appoggio a Wanda Ferro, per la Camera, rientrava nell’appoggio politico a Mangialavori». L’idea, al solito, è quella di organizzare una cena «alla quale avrebbe dovuto partecipare Mangialavori e sarebbe stato invitato anche Rocco Anello». «Noh… E no, lo devi conoscere?[…] Guarda, se è solo senza il suo entourage è una persona … Se ti dico…», assicura Tedesco.

Un paragrafo viene intitolato “La campagna elettorale di Censore Bruno: il ruolo di Pitaro Vito”Bruno Censore per gli amici Brunello, di Serra San Bruno, è il deputato uscente del Partito democratico che, malgrado la messe di voti acquisita, candidato nel collegio uninominale di Vibo Valentia, sarà battuto da Wanda Ferro (Fratelli d’Italia) e Dalila Nesci (M5S)Vito Pitaro, invece, è un dirigente del Partito democratico, grande elettore di Censore, che alle successive amministrative stringerà un patto con il senatore Mangialavori sostenendo il centrodestra e la candidatura di Maria Limardo come sindaco di Vibo Valentia. Più avanti, siamo nel gennaio 2020, verrà ripagato dalla candidatura nella lista della governatrice della Regione Jole Santelli e con l’elezione, nei ranghi del centrodestra, in consiglio regionale. E avrebbe voluto anche essere ricandidato… ma alla fine si è deciso salomonicamente di dirottare buona parte dei suoi voti a Michele Comito, cardiologo, astro nascente di Forza Italia.

È il 4 febbraio del 2018, intercettazione telefonica. È la prima di una lunga serie di captazioni nelle quali emerge chiaramente l’avversione di Pietro Giamborino verso il deputato uscente del Pd: «Non si vota Censore nell’opinione pubblica… Poi i voti che sono aggiustati… Ma quelli… ne hanno tutti… mi segui?». E ancora: «Nessuno ha il coraggio di caricarsi con la mafia… Quelli con la mafia si prendono tutto…».

L’ex consigliere regionale Pietro Giamborino non è in pista direttamente, deve scegliere chi votare ed è corteggiato da mesi da diversi aspiranti parlamentari, affinché dia il suo supporto alle elezioni politiche. Il Ros aveva già registrato, infatti, colloqui con le personalità più disparate, tutte speranzose nel suo appoggio: dall’imprenditore che scalpitava per un posto in Parlamento con il Partito democratico, alla professionista dell’informazione che attendeva il via libera dal Movimento 5 Stelle. Velleità poi tramontate. Così, quel giorno, Pietro Giamborino spiega chi avrebbe votato alla Camera: il centrodestra. E dice anche perché: «Io lo voto perché è uno strumento per abbattere Censore, punto e basta».

Questo è il quadro generale dentro il quale si sono svolte le elezioni politiche di tre anni fa in Calabria senza che Gratteri abbia inciso in qualche modo e relazionandosi come al solito con la teoria del doppio. Perché davanti a tutto questo can can l’unica cosa che ha saputo sottolineare è che non ha mai trovato Jole Santelli in una intercettazione… Verrebbe quasi da dire: “Ma va… davvero?!”... e non è ancora finita.

CATANZARO: LE DIMISSIONI DEL VESCOVO

Il fronte più caldo sotto il profilo giudiziario è la città di Catanzaro.

All’epoca di Gettonopoli, il movimento Cambiavento di Nicola Fiorita era definito come unica forza di opposizione che avesse delineato negli ultimi anni un’alternativa praticabile per la città. Sapete tutti com’è andata a finire. Cambiavento con il suo leader Nicola Fiorita ha conquistato la città di Catanzaro ma è stato costretto a fare i patti col diavolo ossia con quelli che avevano cercato di “eliminarlo” e con la benedizione dell’agente Cooper-Gratteri. Tanto che a tutt’oggi i catanzaresi per ironizzare sulla sua metamorfosi definiscono il sindaco alternativamente o Fioritallini o FioriAbramo.

Ma al di là dei patti politici, non sono certo passate inosservate le dimissioni del vescovo Bertolone, ad appena un mese dal suo pensionamento. Il motivo reale delle dimissioni ma anche della “fretta” relativa alla mancata attesa della sua messa a riposo è il vero cuore del problema.

Per capirlo bisognerà andare a ritroso nella storia della curia di Catanzaro, noi lo abbiamo fatto per molto tempo, e forse si troveranno le cause e le malefatte del vescovo Bertolone, che oggi lascia gettando la spugna. La notizia delle suo abbandono passa quasi inosservata, la città di Catanzaro non lo ama ormai da tempo, da quando si è materializzato nei fatti e nelle attività sospette della sua curia il suo vero carisma, quello del massomafioso. Non è una novità, la conferma arriva quasi puntualmente dalle diverse inchieste prodotte dalla procura di Nicola Gratteri, che hanno sempre pescato nel suo entourage più ristretto fatto di prelati dai facili costumi etici e normalmente in affari con il mondo di mezzo, quello della massomafia e dell’affarismo sfrenato. Ce l’ha confermato, ma non serviva, anche l’inchiesta Basso Profilo dove i diretti collaboratori del vescovo Bertolone sono stati ascoltati dalla Guardia di Finanza in atteggiamenti ed in attività che sono estranei all’essere pastori di anime.

In nome del Padre, del Figlio e della Chiesa massone… si sintetizza così l’eredità che lascia Bertolone nel decennio di guida della curia di Catanzaro. E’ la caduta delle maschere, dei rapporti di complicità e di connivenza prima con la politica massomafiosa e dopo con contiguità con ambienti affaristici spregiudicati, quelli che sono stati la vera essenza dell’epoca Bertolone nella chiesa calabrese.

Molte sono le variabili possibili delle dimissioni di Bertolone, la notizia in verità circolava nei Sacri Palazzi Vaticani da almeno due mesi, e molti a volere essere buoni la ascrivono come l’ultimo anatema lanciato dalla fondatrice del Movimento Apostolico, Maria Marino proprio contro chi, il vescovo massomafioso Vincenzo Bertolone, aveva prima usato e poi abbandonato, cercando di rubare il bottino che restava disponibile sul piatto. Ma c’è di più…

La risposta potrebbe venire – sempre secondo voci che filtrano dalla Santa Sede – sulla mancata porpora cardinalizia, promessa dai suoi complici a monsignor Vincenzo Bertolone quale cardinale di Palermo. Vero o non vero resta il fatto, scandaloso delle sue dimissioni, che si ripetono a stretto giro di posta come quelle di monsignor Luigi Renzo vescovo di Mileto e che ci consegnano l’opacità della guida cosiddetta spirituale di due diocesi calabresi non certo credibili in termini di moralità e di trasparenza. Le concomitanze sono simili, fatte di lotte intestine fra prelati, di vessazioni striscianti contro altre realtà come la Fondazione Natuzza ed il Movimento Apostolico, ma soprattutto di resistenti incrostazioni di ‘ndrangheta almeno nei comportamenti spiccioli dei tanti collaboratori ristretti dei vescovi, abituati ad usare la minaccia e la delazione come metodo di preghiera.

Le dimissioni di Vincenzo Bertolone chiudono una storia, ma ne aprono un’altra che dovrà essere riletta e che metterà a nudo l’attività dei tanti preti palazzinari o dei delitti sanitari consumati in nome di Santa Romana Chiesa, proprio quella sanità disastrata che i vescovi calabresi mettono in evidenza come un mantra, senza mai interrogarsi fra di loro, delle singole malefatte e della distruzione di realtà consolidate come Fondazione Betania proprio a Catanzaro, caduta sotto la scure di Bertolone in alleanza con la massoneria.

Anche in questo caso, esattamente come a Vibo Valentia, Gratteri però si ferma. Ha in mano carte a volontà sulla curia di Catanzaro abitualmente coinvolta in traffici strani di dazioni e denaro e tanto materiale sui tanti collaboratori mafiosi del vescovo Vincenzo Bertolone. Si sussurra per qualche settimana addirittura l’ipotesi che venga beccato proprio Bertolone ma le dimissioni sembrano cementare ancora una volta il patto, il compromesso, il doppio. E la tempesta si ferma. 

Il Vangelo è sempre lo stesso. Quello scritto dagli Apostoli infedeli della curia cittadina in complicità organica con le vicende di Farmabusiness, di Basso Profilo e di tutte le altre pagine che la procura di Nicola Gratteri ha strappato e lanciato al vento, ma che non tornano definitivamente ad un risultato tangibile: la derattizzazione di una città. Già, solo perché si segue una derivazione che non deve essere politica, giusto per non incriminare sempre la magistratura di essere ad orologeria, mentre a Catanzaro, la città della massomafia, l’orologio resta sempre puntato sull’ora di una riscossa, possibile e non realizzata, dalla criminalità organizzata, politica, massonica e clericale che non è un fatto di costume e di cultura, come qualcuno vorrebbe analizzare.

Il costume è diventato radicato malcostume nella curia di Catanzaro e la cultura si è trasformata in coppola, sostituendo la lupara con le consacrazioni eucaristiche drogate dove si distribuiscono sempre ostie avvelenate: quel fai da te per le necessità di famiglia, quella massone e laica, ma anche quella ecclesiastica allargata.

Chi vedeva Nicola Gratteri come l’unica luce nel buio del malaffare catanzarese a trazione vescovile è rimasto profondamente deluso: quella candela alla fine se la sono ingraziata per evitare problemi prossimi venturi, quelli che si addensavano all’orizzonte delle dimissioni di Vincenzo Bertolone. E ce l’hanno fatta.

Cosa ci dicono queste storie? Lo specchio è il nostro doppio, ma anche il nostro opposto, il nostro contrario. Restituisce la nostra immagine, ma ce la riporta ribaltata.

Male e Bene sono due doppi, non a caso, due facce della medesima medaglia. Due lati dell’esistenza destinati a scontrarsi sempre e per sempre, non sconfiggendosi mai, ma rigenerandosi ogni volta. E’ fantastico per un fan che la serie rientri a piene mani nella mitologia di Twin Peaks, ritirando ora fuori le leggendarie pagine strappate del diario di Laura Palmer. E’ bellissimo per uno spettatore più smaliziato assistere ad un episodio come questo molto ricco di avvenimenti e molto più lineare rispetto alle prime settimane. Ma tutto ciò è semplicemente una ripetizione, un doppio di un qualcosa.

Un altro doppio d’eccezione presente nella mitologia twinpeaksiana e che è entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo, è il confronto tra due realtà metafisiche, la Loggia Bianca e la Loggia Nera, presenti in maniera corposa nel background dello show televisivo. Non semplici elementi di sfondo, ma veri e propri punti cardine della storia. Tali luoghi, rappresentati effettivamente in modo del tutto antitetico e speculare, offrono l’ospitalità ad entità ben precise che all’interno di Twin Peaks muovono i fili della trama, come dei demiurghi onniscienti.

Cooper entra nella sala d’aspetto, un limbo tra la Loggia Nera e quella Bianca, dove incontra i due custodi, il nano e il gigante, oltre a Laura (che gli dice che si rivedranno di nuovo tra 25 anni…). Fuori dalla sala d’aspetto, Dale entra nella loggia nera dove, come gli aveva spiegato il suo collaboratore, l’agente Hawk, incontrerà l’io-ombra, ovvero il proprio sosia malvagio (il Doppelganger).

Gratteri come l’agente Cooper è passato dalla Loggia Bianca alla Loggia Nera e il suo io-ombra malvagio ha salvato Bertolone e la curia di Catanzaro così come aveva fatto a Vibo con Mangialavori, Pitaro, la Ferro, De Nisi e compari. Prima aveva indagato, poi aveva mollato la presa. Come a Twin Peaks: tutto e il contrario di tutto.

E ancora alla narrazione mancano realtà importantissime come Cutro/Crotone e Cosenza.

1 – (continua)