Gratteri, Di Pietro e Garlasco. Ecco la campagna per procura

di Mario Di Vito

Fonte: il manifesto

«Il popolo di Garlasco» contro «il partito della magistratura». Lo schema è facile, la campagna è partita. Trasmissioni televisive che tengono accesa la brace sotto al calderone del cold case. Podcast di cronaca nera specializzati nella conta delle macchie di sangue. Post, reel, meme. Giovanni Donzelli l’ha detto chiaramente che a vincere il referendum sarà «quel popolo silenzioso di italiani che sono rimasti sconvolti dalle sviste, dalle indagini condotte male».

IL POPOLO di Garlasco, appunto: gli spettatori pigramente scandalizzati da un caso di cronaca nera che non riesce a trovare una soluzione accettabile da diciotto anni (in realtà una sentenza definitiva esiste pure, ma ha il difetto di non piacere a nessuno). E la procura di Pavia, titolare dell’inchiesta, sta facendo di tutto per peggiorare le cose nella sua realizzazione dell’antica profezia di Bettino Craxi: «Verrà il giorno in cui i pm si arresteranno tra loro». Per ora si limitano a iscriversi a vicenda nel registro degli indagati, ma la strada è quella.

LE TOGHE, insomma, quando ci si mettono sono ben capaci di delegittimarsi da sole e la destra, per vincere il referendum, ha l’intenzione di puntare tutto sulla supposta antipatia popolare nei confronti dei giudici. La campagna mediatica, nelle previsioni dei dirigenti della destra italiana, si farà da sola. E non mancherà nemmeno un tocco artistico: tra fine febbraio e inizio marzo uscirà Portobello, la serie diretta da Marco Bellocchio sul caso di Enzo Tortora, il più grave – o quantomeno il più famoso – scandalo giudiziario dell’era repubblicana, la storia di un popolare conduttore fatto a pezzi dalla giustizia anche se era del tutto innocente. Andrà in onda su Hbo Max, il servizio streaming della Warner Bros che farà il suo esordio in Italia all’inizio dell’anno prossimo. Probabile che se ne parlerà parecchio, la destra lo userà e la magistratura non ne uscirà affatto bene.

TANTO di guadagnato per Giorgia Meloni, che al momento non appare intenzionata ad affrontare la campagna referendaria come fece Matteo Renzi nel 2016. Nessuna personalizzazione, meglio metterci il cappello senza sprecare la faccia. Perché vero è che vincere significherebbe trionfare, ma perdere aprirebbe nel muro del consenso una colossale breccia a pochi mesi dalle prossime elezioni politiche. Il gioco vale la candela? Per il presidente del senato Ignazio La Russa assolutamente no, come ha confessato martedì sera ai cronisti. E poi, in fondo, la guerra alla magistratura è un chiodo fisso solo di Forza Italia, che ha già dedicato l’impresa costituzionale alla memoria di Silvio Berlusconi. Meloni, come del resto il suo partito, viene da un’altra cultura politica.

INFATTI i pur numerosi affondi contro i magistrati degli ultimi due anni non sono mai stati sulla stessa linea dei «classici» del centrodestra italiano, ma si sono concentrati su un argomento specifico: l’immigrazione. Dalla disapplicazione del protocollo per i centri in Albania ad Almasri, il punto non è mai stato nello scontro in sé con le toghe, ma solo con quelle che hanno preso decisioni sgradite sul tema più delicato di tutti, il cavallo di battaglia di tutte le destre del mondo: la promessa che non passa lo straniero.

RESTARE del tutto fuori dal dibattito, ad ogni modo, sarà impossibile per Meloni, anche perché quella della giustizia è l’unica tra le riforme previste a inizio legislatura che ha la possibilità di vedere la luce. Un bel dilemma per lei. Ma anche un problema per le opposizioni. Soprattutto per il Pd, che non vuole diventare «il partito della magistratura» ma, almeno in questi primissimi scampoli, sta subendo l’attivissima concorrenza del Movimento 5 Stelle. Niente mezze misure da queste parti, Giuseppe Conte ha già tirato in ballo Licio Gelli e la P2 come reali ispiratori della riforma, niente meno.

IL VOLTO che già incarna questa linea, fuori dalle forze politiche, è Nicola Gratteri, che, con share clamorosi, va in televisione un giorno sì e l’altro pure a ribadire che non si risparmierà in questa lotta all’ultimo sangue per l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione dal potere politico. Ci sarebbe da discutere, ma che l’argomento faccia presa è un dato di fatto: il frontman del no al referendum sarà lui. Con tutti i problemi del caso. Sabato, all’assemblea in Cassazione dell’Anm, il procuratore di Napoli ha fatto capire ai colleghi che sul palco referendario c’è spazio per uno solo. Lui. «Mi avete cercato per un mese e mi fate parlare solo sette minuti», ha detto quando gli hanno chiesto di tagliare il suo fluviale intervento. Il bello è che aveva ragione, perché a destra è lui l’unico ad essere davvero temuto.

PER QUESTO sarebbe allo studio una contromossa. L’arruolamento del padre di tutte le demagogie giudiziarie (e non solo), l’uomo che trent’anni fa nei sondaggi aveva superato la fatidica soglia dell’eroe con l’80% dei consensi: Antonio Di Pietro, che già si è detto più volte favorevole alla separazione delle carriere. E ieri all’Ansa ha dichiarato di volersi impegnare, «a livello personale, a senza che alcun partito ci debba mettere il cappello sopra». Al governo andrà bene lo stesso.