Nicola Gratteri, un tempo magistrato di trincea, oggi è diventato una specie di brand. Una linea editoriale. Un palinsesto. Lo trovi ovunque: alla radio, in libreria, in TV, su La7, su Rai3, su Amazon, forse persino su Spotify. Dove c’è un microfono, c’è Gratteri. Dove c’è una sedia da talk, c’è Gratteri. Dove c’è una libreria che apre, arriva Gratteri con un nuovo titolo già in classifica. E ora, colpo di scena: Gratteri condurrà anche un programma tutto suo. Si chiamerà Lezioni di mafie, andrà in onda su La7 e in ogni puntata parlerà della criminalità organizzata, come solo lui sa fare. Lo farà da conduttore, non da ospite, non da esperto. Da padrone di casa. Insomma, manca solo la sigla cantata da Fiorella Mannoia e poi siamo a posto. Naturalmente qualcuno ha storto il naso. Quel qualcuno è Francesco Paolo Sisto, viceministro alla Giustizia, che ha detto: “un magistrato che conduce un programma TV? E’ inopportuno “. Gratteri, com’è suo stile, ha risposto con la flemma da guru del prime time: “se è inopportuno, mi faccia un procedimento disciplinare”. Anzi, glielo ha quasi suggerito, come se fosse un nuovo spin-off: “processatemi se ci riuscite, stagione 1”.
Ma la faccenda ha ormai toni da varietà: da una parte un viceministro che sembra il direttore di RaiUno negli anni ‘80, dall’altra un magistrato che fa più share di un dibattito parlamentare. E a questo punto, la domanda sorge spontanea: Gratteri lavora ancora? Intendiamo: da magistrato? Perché a furia di firmacopie, podcast e prime serate, sembra più un Saviano col tesserino che un pm operativo. Quando legge i fascicoli? Durante la pubblicità? O li gira direttamente alla sua redazione? Ma il paragone più lampante, più onesto, più perfetto resta uno solo: Antonino Cannavacciuolo. Un tempo chef, oggi Cannavacciuolo è un imprenditore del palinsesto. Sta ovunque tranne che in cucina. A MasterChef, a Cucine da Incubo, nella pubblicità dei coltelli, nel sogno erotico delle massaie. E in cucina? Nessuno lo vede da anni.
Gratteri sta facendo lo stesso. Un tempo pm di punta, oggi lo vediamo ovunque tranne che in Procura. Dalle inchieste agli studi televisivi, dai processi ai palchi delle librerie, ha solo cambiato ingrediente: Cannavacciuolo cucina la pasta, Gratteri la mafia. E come chef Antonino gira per l’Italia a dire “adesso basta!” a cuochi depressi, Gratteri gira i teatri e le piazze a gridare “qui comanda la ‘ndrangheta!” davanti a un pubblico con le mani pronte all’applauso e la coscienza lavata in streaming. Che sia chiaro: l’antimafia va raccontata. La legalità va spiegata. Ma quando a seminare è sempre lo stesso volto, con la stessa voce, sulla stessa rete, con lo stesso libro ogni sei mesi, il sospetto è che il campo della legalità serva solo a far crescere la sua visibilità. Non sembra più divulgazione, ma autopromozione ben confezionata. Non sarà che Gratteri si è confuso col suo stesso personaggio?
Il magistrato è diventato testimonial. Il paladino è diventato protagonista. La toga è rimasta, ma ormai è solo un accessorio di scena, come la divisa da chef per Antonino.
E chissà che nella prossima stagione non lo vedremo a Sanremo, duettare con Jovanotti in una ballata antimafia. O magari ospite fisso a Che tempo che fa, con la rubrica “Gratteri risponde”. Perché alla fine, Gratteri è diventato come Cannavacciuolo: lo riconoscono tutti, lo citano tutti, lo applaudono tutti — ma il posto dove dovrebbe stare davvero, non lo vede più nessuno. E allora non resta che aspettare il prossimo format:
“Procure da incubo”. Con Gratteri che entra in tribunale, guarda fascicoli impolverati, scuote la testa e urla: “ma che Giustizia è questa? Adesso basta!”