“Ho immaginato il parco Piero Romeo come un sobborgo di Gaza devastato dalle bombe: è stato terribile”

di Michele Santagata
Ho immaginato qualcosa che mi ha terrorizzato. Ero con uno dei miei tanti nipotini, anzi pronipote, un bambino vivace (benedica ottu e novi, fora maluacchiu) di 7 anni, al parco Piero Romeo, ara rifriscata, dopo una giornata afosa, per farlo svagare un po’ e stare all’aria aperta. Mi piace stare con i bambini. Ero lì che lo guardavo giocare insieme ad altri bambini e bambine: saltavano, dondolavano, si rincorrevano e ridevano, erano felici. Ed è proprio mentre li osservavo giocare che la mia mente ha collegato quella giocosa felicità alla loro innocente inconsapevolezza di tutto l’orrore che ogni giorno si consuma a Gaza, in Ucraina e nelle tante guerre dimenticate sparse per il mondo. Loro non sanno che altri bambini, alla loro stessa età, non hanno quella spensieratezza.
E di colpo lo scenario è cambiato: il parco Piero Romeo si è trasformato in un sobborgo di Gaza devastato dalle bombe. Ho immaginato mio nipote e gli altri bambini lì, in mezzo alle macerie delle loro case bombardate, piangere per la fame, per la sete, per il dolore delle ferite. Niente scivoli, niente altalene, niente rincorrersi, nessuna palla. Solo macerie e sofferenze. Non c’è spazio per la gioia dei bambini in tutto quell’orrore.
Ho immaginato i suoi innocenti 7 anni di colpo cancellati dalle cicatrici premature della sofferenza. Non c’è tempo per essere bambini in quell’inferno. Ho immaginato il suo diritto di crescere giocando spazzato via dalla ferocia che non conosce umanità. Ho immaginato il suo volto in quello dei tanti bambini di Gaza: le loro lacrime erano le lacrime di mio nipote, la loro sofferenza era la sua. E intanto lui, inconsapevole dei miei cattivi pensieri, giocava con gli altri bambini.
Un’immagine terribile, che mi ha scosso profondamente come nessuna cosa mai nella mia vita. E di cose ne ho viste. Un dolore al petto lancinante, e un nodo alla gola che stringeva il mio respiro. Volevo staccarmi da quel pensiero, ma non ci riuscivo. Ho provato, per lunghi interminabili secondi, l’atroce dolore di un padre e di una madre che assistono impotenti al pianto disperato di un figlio per la fame, o alla morte sotto le macerie.
Non sono avvezzo al pianto, non perché sia un duro — ho solo imparato a controllare le lacrime — ma in quel momento non ci sono riuscito. E proprio mentre asciugavo quella lacrima, mio nipote, raggiungendomi, mi ha detto: «Zio, perché piangi?». E non sapendo cosa dire, e per continuare a tenerlo lontano da tutto quell’orrore, ho risposto: «Piango perché ti voglio bene». E lui mi ha detto: «Anch’io zio. Dopo ci prendiamo un gelato». «Certo» ho risposto…