(DI VINCENZO BISBIGLIA – ilfattoquotidiano.it) – “Non credo nelle ‘piccole Patrie’: nessuna concessione da parte mia a spinte indipendentiste”. Era il 5 ottobre 2017, poco più di 6 anni fa, quando l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, affidava queste parole a una lettera aperta pubblicata sul quotidiano Libero. Intervento titolato: “No all’autonomia, porta alla secessione”. Altri tempi. Il contesto era quello dei referendum consultivi sull’autonomia (del Nord), che si sarebbero poi svolti pochi giorni dopo in Lombardia e in Veneto e che avviarono il percorso che ha portato al disegno di legge in corso di approvazione alle Camere. Quel che colpisce è che la “patriota” Meloni guida tuttora un nutrito drappello di peones che, provenendo dal Centro-Sud, nei loro fortini si sono sempre opposti al “settentrionalismo” leghista, per ragioni sia di partito che di territorio. È finita che martedì ben 45 senatori meridionali (sui 110 “a favore”) hanno votato per le istanze “indipendentiste”, come le definiva la premier, e che di questi 45 presunti “traditori” del Sud, ben 28 fanno parte di Fratelli d’Italia (i leghisti sono solo 4).
E pensare che Meloni, nel 2017 su Libero, sosteneva che “i tecnocrati europei, la Bce (sic!), gli speculatori finanziari (…) preferirebbero avere a che fare con le piccole ‘Catalogne’ di tutta Europa”. Due anni prima, nel 2015, Meloni insieme al suo “padre politico”, Fabio Rampelli, e all’attuale sottosegretario Edmondo Cirielli, proponeva di “abolire le Regioni” per favorire “l’unione dei territori in funzione della Storia comune”. Altri tempi, dicevamo.
Come quelli che portarono, il 23 luglio 2019, il siciliano Nello Musumeci (tra i 45 favorevoli martedì all’autonomia) a chiedersi: “Non c’è il pericolo che col regionalismo differenziato (…) chi è ricco diventi sempre più ricco, e chi è povero diventi sempre più povero?”. Lo stesso Musumeci mesi prima aveva invocato la “difesa dell’unità nazionale”. Che dire di Antonio Iannone, anche lui di FdI, che il 15 febbraio 2019 affermava che “il Sud va difeso dallo scellerato progetto del governo grilloleghista di dare via libera alle autonomie regionali del Nord”. Non solo meloniani.
C’è Mario Occhiuto (FI), fratello di Roberto, presidente della Calabria. Il 6 luglio 2023 affermava: “La legge è migliorabile, bisogna garantire le aree più svantaggiate del Sud”.
La palermitana Giulia Bongiorno (Lega) il 23 luglio 2019 sosteneva che “esistono già amministrazioni di serie A e di serie B”, e ammoniva: “Bisogna gestire le differenze”.
Chissà di fronte alle bandiere indipendentiste venete sfoggiate in Parlamento, cosa pensano gli elettori campani dei senatori Gianluca Cantalamessa, Domenico Matera, Giovanna Petrenga, Sergio Rastrelli (tutti FdI) e Francesco Silvestri (FI). Tra i calabresi, favorevoli all’autonomia sono stati Tilde Minasi (Lega), Fausto Orsomarso ed Ernesto Rapani (FdI). Ci sono poi i pugliesi come Dario Damiani, Francesco Paolo Sisto (FI), Anna Maria Fallucchi, Filippo Melchiorre, Vita Maria Nocco, Ignazio Zullo (FdI) e Roberto Marti (Lega). In Puglia è stato eletto pure il leader della Lega, Matteo Salvini. Cosa dire dei siciliani Antonino Germanà (Lega), Salvo Pogliese, Raoul Russo, Salvatore Sallemi (FdI) e Daniela Ternullo (FI), oltre a Stefania Craxi, che è milanese ma eletta in Sicilia. Da Abruzzo, Molise e Basilicata sono andati a Roma a votare per il Nord, oltre a Claudio Lotito, anche Costanzo Della Porta, Liris Guido Quintino, Gianni Rosa e Etelwardo Sigismondi. E poi i pontini Nicola Calandrini e Claudio Fazzone e i romani Maurizio Gasparri, Lavinia Mennuni, Ester Mieli, Cinzia Pellegrino, Marco Scurria e Marco Silvestroni. Chiudono i sardi (e meloniani) Giovanni Satta e Antonella Zedda. “Brigante se more”, cantava Eugenio Bennato. E magari ogni tanto l’ha intonata pure qualcuno dei politici appena nominati.









