di Salvo Palazzolo
Fonte: Repubblica
Ventinove anni dopo, spuntano ancora tracce rimaste nei cassetti. Le stragi Falcone e Borsellino, e poi quelle di Roma, Milano e Firenze, restano il grande buco nero della giustizia italiana. Per tutte le indagini che non furono fatte.
Nel marzo 1994, la Dia spedì a quattro procure – Palermo, Roma, Milano e Firenze – un rapporto “strettamente riservato” in cui si rappresentavano alcune “certezze”: le stragi Falcone e Borsellino sono state “richieste” a Salvatore Riina da “personaggi importanti”, in cambio della promessa di una revisione del maxiprocesso. Ma chi sono i personaggi importanti?
Nel rapporto, la Dia all’epoca diretta da Pippo Micalizio citava Licio Gelli e una parte della massoneria italiana, appoggiati da settori dei servizi segreti e da “ambienti imprenditoriali e finanziari”. Operativi sul campo, ci sarebbero stati invece esponenti dell’eversione di destra. Gli investigatori fermavano la loro attenzione sull’artificiere che avrebbe confezionato i cinquecento chili di esplosivo utilizzati per uccidere Falcone: Pietro Rampulla, mafioso della famiglia di Mistretta con un trascorso in Ordine Nuovo. Davvero era stato lui l’artificiere della strage di Capaci. La Dia aveva ottime fonti. Gli investigatori segnalavano anche un personaggio ancora più misterioso, Paolo Bellini: veniva citato nella lettera di addio di Nino Gioè, uno degli stragisti di Capaci morto suicida in carcere, come “l’infiltrato”.
Ai boss mafiosi aveva proposto sconti di pena in cambio del recupero di opere d’arte rubate. Pure lui aveva un passato nell’estrema destra, in quanto esponente di Avanguardia nazionale. Anni dopo, le indagini diranno che Gioè era davvero uno strano suggeritore a casa dei mafiosi, non è chiaro per conto di chi.
La Dia aveva ribattezzato le 70 pagine di rivelazioni “Rapporto Oceano”. A tirarlo fuori dai polverosi archivi di Stato è adesso la commissione regionale Antimafia presieduta da Claudio Fava, che nei giorni scorsi ha depositato una relazione sul nuovo lavoro d’indagine attorno ai misteri delle bombe mafiose. “È stato il procuratore generale Roberto Scarpinato – spiega la relazione – a citare alla commissione un rapporto della Dia in cui si delineava il quadro “economico politico finanziario” delle stragi. Rapporto inviato a quattro procure, ma mai utilizzato nelle decine di inchieste che si sono succedute”. In quelle 70 pagine venivano anticipati davvero tanti elementi importanti sulla fase esecutiva. Da Rampulla a Gioè.
Ma, oggi, è il tema dei mandanti a essere di grande attualità. Non solo per un esercizio di ricostruzione storica. La procura di Firenze continua a indagare su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri per “concorso in strage”, dopo le intercettazioni in carcere di Giuseppe Graviano, che diceva al compagno dell’ora d’aria: “Berlusconi mi ha chiesto questa cortesia, per questo c’è stata l’urgenza”.
Ora, c’è da chiedersi: sulla base di quali fonti la Dia parlava di “personaggi importanti” citando Gelli e una parte della massoneria, settori dei servizi segreti e ambienti imprenditoriali e finanziari? Sarebbe interessante chiederlo agli investigatori del tempo. Si può continuare a leggere il “Rapporto Oceano”, che offriva alla magistratura un’altra riflessione ben precisa sul rapporto fra criminalità organizzata e finanza. Questa: “Il gettito prodotto dalle attività criminali poste in essere dalle varie attività dei gruppi mafiosi non corrisponde al valore dei beni sequestrati, dei patrimoni confiscati, né delle spese che la criminalità sostiene. Questa grande ricchezza residuale non può quindi che essere nascosta nel sistema finanziario (…). Il sistema finanziario, attraverso i suoi meccanismi, ha creato negli ultimi anni strumenti giuridici ed economici che lo hanno portato ad assumere un ruolo preminente rispetto a quello industriale (…). Come è noto, questo mercato è quello dove è più agevole nascondere i capitali di illecita provenienza (…). Si può ragionevolmente ipotizzare che, attraverso il mercato finanziario, la criminalità organizzata abbia potuto raggiungere anche il sistema industriale”.
Una riflessione moderna che richiama il tema degli investimenti di mafia fatti sin dagli anni Settanta al Nord. È il vero snodo su cui le indagini non hanno fatto mai passi avanti. La sentenza Dell’Utri ha accertato, ormai in via definitiva, che Berlusconi pagò il pizzo alla mafia, da metà degli anni Settanta all’inizio dei Novanta. Prima, per evitare sequestri a Milano, poi per proteggere i propri ripetitori a Palermo. Sono rimaste invece senza riscontri le ipotesi, messe a verbale da alcuni collaboratori di giustizia, che soldi di mafia sarebbero finiti nelle aziende di Berlusconi. È il mistero su cui adesso si sta cimentando l’inchiesta della procura di Firenze.