Il “modello Fico” è la strada per l’alleanza progressista

(di Giovanni Valentini – ilfattoquotidiano.it) – Con la rivelazione del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, raccolta e rilanciata da Antonio Padellaro sul Fatto, si conferma un sospetto o una convinzione che avevamo già in molti prima delle ultime politiche. E cioè che in effetti c’era la possibilità di un accordo – se non un “cartello”, almeno un patto di desistenza – fra Pd e M5S per vincere le elezioni e che fu l’allora segretario dem, Enrico Letta, a bloccare malauguratamente questa ipotesi.

Sul piano mediatico, la notizia è una “bomba”: tant’è che questo giornale l’ha pubblicata in prima pagina. Sul piano politico, equivale a un j’accuse nei confronti di un leader che ha fallito la missione di unire il fronte progressista e impedire così il trionfo di una destra nazionalista, sovranista e tendenzialmente eversiva: uno schieramento che ha raccolto il 40% dei voti validi, ma rappresenta appena il 26,7% del corpo elettorale, astenuti compresi. Basterebbe dire che, con un patto fra Partito Democratico e 5Stelle, il centrodestra non avrebbe raggiunto probabilmente la maggioranza al Senato e quindi oggi non avremmo come presidente dell’assemblea il “camerata” Ignazio La Russa, assurto a seconda autorità dello Stato. Questo vale per il passato. Ma la notizia ripresa da Padellaro è ancor più rilevante per il futuro. È da qui che bisogna ripartire per cercare di costruire un’alternativa di governo. Innanzitutto, con un programma condiviso e concentrato su alcuni punti fondamentali: dalla politica estera, dove l’opposizione non ha certamente al suo interno più differenze e divisioni della variegata maggioranza che sostiene il governo Meloni; fino alla difesa del lavoro e dei salari, della sanità pubblica, dell’ambiente, della solidarietà sociale. E quindi con una squadra di governo composta da persone competenti e autorevoli di fronte all’armata Brancaleone dell’attuale esecutivo.

Poi, occorre una leadership forte e coesa, capace di interpretare e rappresentare una sintesi affidabile dei valori e degli obiettivi comuni. Quando si dice leadership, s’intende un gruppo di lavoro il più omogeneo possibile, in cui ognuno deve rinunciare a qualcosa della propria identità politica per favorire una convergenza più larga. E questo è un compito che spetta principalmente al potenziale frontman, o frontwoman che sia, in grado di attrarre consensi anche fuori del perimetro di coalizione, richiamando gli elettori più giovani e una buona parte degli astenuti.

I due candidati naturali sono, ovviamente, i leader dei due partiti maggiori: Elly Schlein e Giuseppe Conte. Ma nulla esclude che possa essere un terzo soggetto, eventualmente espressione della società civile, proprio per allargare l’area del consenso ed evitare una rivalità che rischia di innescare il gioco dei veti incrociati. Non mancano né al Pd né al M5S figure esterne che abbiano un tale standing anche sul piano comunicativo. L’ideale sarebbe, però, che i rispettivi elettori scegliessero insieme il candidato premier, magari attraverso le primarie di coalizione, o un meccanismo analogo, sotto il controllo di un comitato di garanzia che ne assicuri la trasparenza. In questa ottica, una confluenza sul nome di Roberto Fico, un personaggio che vanta anche un profilo istituzionale come ex presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza e poi della Camera dei deputati, potrebbe essere propizia per la guida della Regione Campania. Non c’è motivo di scandalizzarsi più di tanto se nei giorni scorsi l’ex premier Conte ha incontrato il governatore uscente, Vincenzo De Luca: un “cacicco” molto popolare che – piaccia o meno – sarebbe in grado con il “pacchetto” dei suoi voti di neutralizzare la candidatura di chiunque. Il “modello Fico”, al di là dei giochi di parole, indica una soluzione praticabile sul piano del realismo e del pragmatismo politico.