(di Michele Ainis – repubblica.it) – Il Ponte sullo Stretto non si vede ma si sente, eccome se si sente. Al pari delle voci che ti risuonano in testa se soffri di schizofrenia. In questo caso rimbomba il vocione di Matteo Salvini, ministro dei porti, dei ponti e anche dei conti, dato che il mastodonte ci costerà 13,5 miliardi (stima per difetto).
Ieri (lunedì 4 agosto) l’ultimo annuncio: i cantieri partiranno entro l’estate. Ultimo di nove, ci informano i motori di ricerca. Giacché da un paio d’anni il ministro ribadisce la promessa, salvo spostarla sempre un po’ più avanti: entro l’estate 2024; no, entro dicembre; no, nella primavera 2025; no, a giugno; e adesso ancora no, entro l’estate, benché ormai l’autunno s’avvicini.
Sicché adesso è fatta, (ri)annuncia Salvini. Manca soltanto l’approvazione — prevista per mercoledì 6 agosto — del Cipess, che non è un cipresso bensì un organo interministeriale, quindi decide in una logica politica, senza le pruderie dei tecnici. Ne otterremo in dono — aggiunge il ministro — l’albero della cuccagna.
Per i 250 proprietari di case espropriate a Torre Faro, che verranno indennizzati in dobloni d’oro. Per le imprese lombarde che gestiranno i lavori (quelle meridionali no, non sono contemplate). Per i disoccupati, giacché il ponte creerà 100 mila posti di lavoro (ai suoi tempi Berlusconi ne prometteva un milione, ma poi c’è stato il crollo delle nascite). Verranno inoltre ad aiutarci 170 ingegneri dagli Stati Uniti (senza dazi, si spera).
E il Ponte sullo Stretto sarà anche «un’importante operazione antimafia» — chissà poi perché, forse perché la mafia non s’occupa di affari. Alla faccia dei gufi come don Ciotti, secondo cui c’è il rischio che quel ponte non unisca due coste ma due cosche.
Poi, certo, si può sempre eccepire. Per esempio in nome del paesaggio, di quel tratto di mare in cui navigava Ulisse, e via via raffigurato da Virgilio, Lucrezio, Dante, Goethe, Pascoli, fino all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. O evocando i dubbi espressi dagli studiosi di strutture in acciaio circa la fattibilità di questo ponte a campata unica lungo più di tre chilometri, circa la sua capacità di resistere ai venti e ai terremoti (l’ultimo, nel 1908, ha fatto 80 mila vittime). O ancora mettendo in fila le autentiche necessità della popolazione siciliana, d’un territorio nel quale l’acqua corrente viene razionata e i treni arrancano su linee ferroviarie a binario unico.
Ma infine l’ultima obiezione investe il metodo, anziché il merito della questione. È giusto, è lecito, è opportuno che una decisione così dirompente passi sopra la testa della cittadinanza? Senza consultarla con un referendum, senza un dibattito pubblico sui vantaggi e, sì, sugli svantaggi? È un punto che tocca la qualità della nostra vita democratica, ma per misurarla non c’è bisogno di volare sulla luna: basta volgere lo sguardo ai nostri confini.
In Francia la legge Barnier del 1995 ha istituito il débate public — un percorso partecipativo non vincolante — sui progetti d’infrastrutture nazionali. In Svizzera la realizzazione delle grandi opere viene sempre preceduta da referendum nazionali o cantonali.
E l’Italia? Forse il ministro Salvini del governo Meloni potrebbe chiedere consigli al ministro Salvini del primo governo Conte. Nel dicembre 2018 s’infiammava la controversia sulla Tav, la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione; e per venirne fuori Salvini propose d’indire un referendum. Ecco, facciamolo.









