di Cesare Giuzzi
Fonte: Corriere Milano
Lo chiamano ‘u Dutturicchiu. E qualcuno penserà che sia per gli occhiali leggeri dalla montatura quasi invisibile. Per i vestiti da pensionato benestante. Tono su tono, di marca ma mai pacchiani. Potrebbe sembrare un ex direttore di banca, un funzionario delle poste, forse perfino un dottore. Non un primario, ma un medico di campagna. Ai quali una volta le nonne portavano una gallina da brodo per riconoscenza dopo aver visitato i figli. Dutturicchiu, in realtà, è l’uomo più enigmatico e forse potente delle cosche al Nord adesso in libertà. Non solo quelle di San Luca, sulle pendici d’Aspromonte, dove e nato e dove c’è la «Mamma della ‘ndrangheta», come recitano i giuramenti di mafia. Ma soprattutto delle famiglie che in questi anni attraverso matrimoni, battesimi e cresime, si sono affidate a lui riconoscendogli probità e rettitudine.
Leggenda e realtà (criminale)
Su Giuseppe Calabrò, 74 anni, girano così tante leggende da non sembrare vere. Per anni gli investigatori non sono riusciti a catturare la sua voce in alcuna intercettazione. Come se il Dutturicchiu mafioso fosse un fantasma, un mistero. E ci fosse invece soltanto questo vecchietto con le sue mattine al tavolino di un bar di viale Brianza trascorse giocando a carte davanti a un caffè. Lo scrivono perfino gli investigatori dell’Antimafia che per due anni sono stati la sua ombra nell’indagine «Doppia curva», abituati a vedersela con «prede» di primo livello: «Calabrò era personaggio dall’eccezionale scaltrezza, estremamente accorto e misurato nell’uso dei telefoni cellulari che utilizzava di rado e in modo discontinuo: solitamente spegneva il cellulare nei momenti da lui ritenuti delicati e durante gli spostamenti. Maniacalmente guardingo e sospettoso, sempre vigile nell’osservare sia le persone che camminavano nelle sue vicinanze (sospendendo temporaneamente le conversazioni in cui era impegnato) sia le autovetture che transitavano, atteggiamento che ha reso estremamente difficoltoso il costante monitoraggio sul territorio». Ma Dutturicchiu non è un fantasma, tutt’altro.
Non certo alto, ma neanche basso. I capelli grigio argento portati di lato. È nell’atrio del tribunale di Como. Le mani in tasca, zoppica leggermente a causa di una vecchia frattura al femore. Si guarda intorno durante la pausa del processo che lo vede imputato per il sequestro e l’omicidio di Cristina Mazzotti, 49 anni dopo i fatti (in aula mercoledì la testimonianza del fidanzato). Oggi vive a Bovalino, dove negli anni si sono trasferiti molti abitanti di San Luca. Ma tiene sempre un piede a Milano. Dove ha vissuto a lungo e dove la moglie ha lavorato come insegnante vicino a piazzale Loreto. All’inizio dell’udienza si accomoda in ultima fila nella grande aula della corte d’Assise. Solo quando il presidente legge il suo nome e lo invita ad avvicinarsi al banco del suo legale, Calabrò si alza, chiude con un gesto la cerniera del giubbino blu, e quasi ossequiosamente si avvicina alla prima fila. Ne ha avuti altri di processi, ne ha avuti molti. Ma chi non lo sa — nonostante il suo nome compaia in un centinaio d’indagini sulla ‘ndrangheta dagli anni Settanta a oggi — può solo immaginare che quel vecchietto mite e stralunato si sia ritrovato vittima di un macroscopico errore della giustizia. E della burocrazia.
Osserva, ricambia il saluto. Non scappa, anche se inizialmente è un po’ circospetto. Parla del suo processo e di accuse che «come potranno essere dimostrate dopo cinquant’anni?», dice. Poi si scioglie. È affabile, scaltro, anche ironico. Recita un ruolo che negli anni dentro e fuori dai tribunali s’è cucito addosso come una seconda pelle. Parlare poco, ascoltare molto, portare la discussione sempre un po’ più lontana dall’obiettivo di chi domanda, ma con garbo. Come quando racconta di non avercela con i giornalisti e anzi di apprezzarne il lavoro perché anche lui, quando era detenuto a San Vittore, aveva fatto il reporter e il direttore del giornale del carcere, il mitico «Due».
Mezzo secolo di reati
Non ha una condanna per mafia, e questo ci tiene a sottolinearlo. Primo reato nel ‘75: emissione d’assegni a vuoto. Multa di 50 mila lire con decreto penale della procura di Torino. Poi detenzione di armi, ancora assegni, oltraggio a pubblico ufficiale, spendita di monete false, ricettazione e (molte) per traffico di droga. La sua specialità. Nel 2005 il procuratore generale di Milano calcola un cumulo di 18 anni e tre mesi e una multa di 182.760 euro. L’ultima è del 27 gennaio 2006 della corte d’Appello di Genova: 4 anni, sempre per droga. Per il resto è sempre stato assolto (dall’accusa di mafia o di sequestro di persona) per «insufficienza di prove».
Calabrò non è un boss della ‘ndrangheta. Almeno per come si è abituati a considerare un boss. Perché Dutturicchiu è al tempo stesso ambasciatore e ministro della ‘ndrangheta. Amministratore delegato, notaio, contabile, arbitro e perfino giudice. Non in nome proprio, ma del potere che gli è stato affidato affinché venga amministrato con la cura di un antico custode dei valori mafiosi e la saggezza di un savio. Per semplificare: un risolutore di problemi. Un oliatore di ingranaggi, un pacificatore di controversie. O come ha detto lui intercettato, «un ombrello, per riparare l’uno e l’altro».
I rapporti con il ministro della Dc
Di lui hanno parlato decine di collaboratori di giustizia, come Francesco Fonti, Antonio Zagari e Saverio Morabito. È lui a raccontare durante il processo Nord-Sud, che vede imputato per droga il fratello Francesco Calabrò, che Dutturicchiu «era stato da loro in due-tre occasioni» durante il rapimento di Cesare Casella «con la scusa di chiedere se avessero la disponibilità di droga, ma con l’intento di carpire informazioni sul sequestro per contatti — così dice Morabito — che lo stesso aveva con un noto personaggio politico della Dc». Per gli inquirenti si sarebbe trattato «verosimilmente del ministro Virginio Rognoni, anche lui di Pavia come Casella». In quegli anni in Francia cerca di far evadere il narcos Paolo Sergi. Antonia, la sorella di Calabrò, ha sposato Antonio Romeo, detto l’Avvocaticchiu, il figlio di Sebastiano, capobastone della potente ‘ndrina «Staccu» di San Luca. Ma è anche zio, da parte di moglie, di Antonio Pelle, cognato di Domenico Pelle, figlio del capocosca ‘Ntoni Gambazza, boss di San Luca. È il figlio Antonio Calabrò, 35 anni, (anche lui trafficante di droga) ad avergli dato legami di sangue con le ‘ndrine di Africo. Suo suocero Santo Palamara, della famiglia dei «Bruciati», è stato ammazzato nella sanguinosa faida di Motticella che ha «lasciato a terra» più di cinquanta morti. Mentre sua figlia Agata Isabel, 41 anni, ha sposato il nipote di Giuseppe Barbaro «’u Nigru», della potente famiglia di Platì. E la sorella Maria, 69 anni, ha sposato il nipote dei tre fratelli Papalia: Domenico, Rocco e Antonio. I boss di Buccinasco.
Gli studi all’Università
«Non so il perché di questa mia fama…», risponde quasi ridendo. Il suo soprannome, racconta, è figlio di «tre anni di studi di Medicina»: «Poi ho smesso perché mi hanno arrestato». Una volta uscito «mi sono iscritto a Farmacia e dopo due anni mi hanno arrestato di nuovo». Negli archivi, tra arresti e fughe in Costa Azzurra, c’è traccia anche del progetto di uccidere l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi nel ‘90 insieme al narcos Santo Pasquale Morabito. Nel ‘96 viene condannato per un grande traffico di eroina sull’asse Lombardia-Liguria con Salvatore Papandrea. Insieme vengono coinvolti in altre indagini su Milano dove emergono gli incontri al «Bar Internazionale» e alla «Boutique del Tabacco» di viale Legioni Romane. Gli stessi locali in cui verrà pedinato durante l’inchiesta sulle infiltrazioni criminali nel mondo ultrà di Inter e Milan. In quelle indagini compaiono anche Luigi Mendolicchio e Pino Caminiti, nipote di Papandrea, ritenuto dai pm Paolo Storari e Sara Ombra «il re dei parcheggi di San Siro». Calabrò sarà proprio il protettore degli affari di Caminiti, il suo «ombrello», come dice intercettato, per proteggerlo dalle mire delle altre famiglie mafiose. «Lui è il numero uno in assoluto dei calabresi. Lui c’ha la Francia in mano, c’ha tutto quello che vogliamo, lui è il re della Costa Azzurra», lo descrive compiaciuto Camininti.
Gli affari a San Siro
Dutturicchiu è una figura chiave dell’indagine «Doppia curva», dove sarà indagato ma non arrestato. È lui a garantire per Caminiti ma anche per gli affari delle altre famiglie calabresi sullo stadio. «Mi ha detto: “Pino tu cosa c’entri con la curva?”. “Qualsiasi persona viene a dirti qualcosa dello stadio, tu non fai altro che dire sono compare di tizio… che poi mi vedo io su tutto”», racconta Caminiti. Pino si autodefinisce «il cavallo di Troia» negli affari dei parcheggi. È così legato a Calabrò e agli ambienti delle cosche da arrivare a tatuarsi sul braccio la «Madonna della montagna», la protettrice del Santuario di Polsi, luogo simbolo della ‘ndrangheta: «Noi ringraziamo a Dio, quelli di San Luca sono dalla nostra parte», diceva al suo «datore di lavoro», l’imprenditore Gherardo Zaccagni.
Quando nel 2023 viene rinviato a giudizio per il processo Mazzotti, Calabrò chiede al duo Caminiti-Zaccagni «uno stipendio minimo, mille euro», perché «gli avvocati mi stanno mangiando». Caminiti è ammirato dal comportamento di Calabrò: «È l’uomo più meticoloso che io abbia mai conosciuto, è una persona che si va a prendere il suo autobus, non vuole vedere nessuno, non va a mangiare, non va nei night, non va nei locali, non si mette in mostra». E ancora: «È della vecchia guardia bro’, uno dei vecchi boss, capito? Se uno sbaglia con Peppe è fottuto, lo sai o no!». Dutturicchiu è davvero meticoloso. Effettua una bonifica del suo appartamento in cerca di microspie: «Nelle spine ne abbiamo trovate tre, una nel salotto, una dove c’è il riscaldamento e un’altra in cucina».
Il manuale Cencelli della criminalità
Dutturicchiu parla a Caminiti di un «tentativo di ingerenza da parte di soggetti africoti nell’ambiente Curva Nord Inter, aggiungendo che gli stessi potevano prendere il business dei parcheggi». Calabrò sa bene della presenza di Bellocco perché è stato informato «dai parenti dei ‘mbrogghia (il clan Mancuso di Limbadi)» ma non è Bellocco il problema, perché con lui ha già sistemato la questione: «Gli ho detto guarda, i parcheggi non si toccano fin quando ci sono io. Se c’è qualcuno che c’ha qualche problema viene da me». La sua preoccupazione è che ci fosse «gente in attesa e non si faceva avanti», intendendo altri clan calabresi. Quanto agli affari allo stadio Calabrò, sempre ben informato, avverte l’amico Caminiti: «Guarda la curva lasciala perdere, perché è un mandato di cattura domani mattina tu vai in galera». Ma Dutturicchiu interviene direttamente anche quando nella Curva Sud rossonera sta per scoppiare una guerra con il tentativo di scalata alla leadership di Luca Lucci da parte del calabrese Mimmo Vottari e i suoi «Black Devil». «C’era mio zio dentro là, è andato a parlare (riferimento a Calabrò) con Luca Lucci…».
Calabrò gestisce gli equilibri della ‘ndrangheta al Nord con i metodi del «manuale Cencelli», tanto da fermare Caminiti quando gli paventa di voler mettere le mani sui parcheggi dello Juventus Stadium di Torino: «Pinuccio tieniti questo, perché andare a tirargli via il mangiare ad altre persone…», gli avrebbe detto Dutturicchiu parlando della famiglia Belfiore, una delle più importanti del Piemonte, già inserita nel business.
I pranzi di affari
Agli atti c’è traccia anche di un pranzo al ristorante «Nonna Vittoria» di via Varesina tra Calabrò e Bellocco. «Io ho mollato tutti gli impegni per venire», dice il giovane rampollo di San Ferdinando. «Guarda, vengo solo, con grande piacere soprattutto per conoscerlo». Al ristorante si parla di affari in curva e di come contenere gli appetiti di altre famiglie. Al tavolo c’è anche il genero di Calabrò, Domenico Barbaro. È lui alla fine del pranzo a sancire una sorta di accordo comune contro le mire di altre cosche: «Per questo ci dobbiamo guardare. Da questi ci guardiamo al 100% , te lo dico che sono più cristiani, ci guardiamo al 100%».
Calabrò a Milano incontra i calabresi Salvatore Muià e Vincenzo Facchineri. Rappresenta più famiglie e la testimonianza arriva anche dalle carte dell’inchiesta Hydra sul consorzio mafioso tra ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra che di recente ha avuto l’avallo del Tribunale del Riesame di Milano sull’esistenza dell’associazione mafiosa. «La figura di Calabrò era riconosciuta — scrivono i pm — per il suo ruolo specifico nell’ambito del mandamento della Jonica anche da altri esponenti del sistema confederativo mafioso provenienti da associazioni criminali di diversa natura». Non a caso in quell’indagine emerge un viaggio a Roma di Dutturicchiu che incontra Santo Crea e Giancarlo Vestiti, il referente del clan Senese. In quell’occasione, scrivono gli investigatori, «si sarebbero successivamente recati ad incontrare Senese Vincenzo», il figlio di “Michele u’ pazz”, il capostipite della famiglia di camorra.
Nel febbraio 2020 Calabrò incontra al bar «Cin Cin» di corso Buenos Aires, Giorgio Condello Sibio, 41 anni. Il figlio naturale del defunto capocosca reggino Paolo De Stefano, omicidio che nell’85 portò seconda guerra di mafia e a lungo il boss più potente di Reggio Calabria. «Giorgienne» sarà arrestato pochi mesi dopo nell’indagine «Malefix» per aver ripreso le fila del clan, tanto da essere riuscito a farsi autorizzare dalla prefettura a cambiare nome, prendendo il cognome del padre naturale, diventando così Giorgio De Stefano. Evento più unico che raro. A Milano aveva interessi nel ristorante «Oro restaurant» sui bastioni di Porta Volta, covo di vip e starlette. E mesi prima era finito sui rotocalchi per la sua storia con la ex di Fabrizio Corona, Silvia Provvedi.
Chi sia davvero «il fantasma» Calabrò lo spiega definitivamente Caminiti: «Il vecchio se lo vedi non gli dai una lira. Parenti, tutti parenti. I Papalia sono parenti anche con Morabito e con Calabrò e con Romeo. Più si sposano e si mettono tra di loro, più creano quella cosa di intoccabili, hai capito? Hanno in mano il mondo intero».









