La “cupola” Reggio-Cosenza, Marrapodi e il rituale della giustizia massonica

Loizzo e Marrapodi. Sempre la Calabria e sempre la massoneria. Cosenza e Reggio, l’eterno dilemma della massoneria deviata. Il primo, ha conservato i segreti portandoseli nella tomba, il secondo nella tomba ci è finito per aver pensato di rivelarli.

Una cappa di potere impressionante che si riflette pari pari anche sul livello politico.

Sulla morte del notaio Marrapodi, è esaustivo uno scritto del magistrato Vincenzo Macrì pubblicato dal Corriere della Calabria nel 2015.

MARRAPODI E IL RITUALE DELLA GIUSTIZIA MASSONICA

di VINCENZO MACRI’

Più volte, Salvatore Boemi, già procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria nell’ultimo decennio del secolo scorso, ha ripreso, anche ufficialmente, la vicenda del notaio Marrapodi, esponendo la propria convinzione che non di suicidio si sia trattato.

Quello fu il risultato delle indagini condotte in quegli anni, e non sono certo in grado di valutarne l’accuratezza e i risultati, dal momento che non ho mai avuto modo di prenderne visione, neppure nella mia qualità di delegato al coordinamento investigativo della Dna, allorché, alle mie richieste mi fu opposto che non si trattava di procedimento della Dda e, come tale, non avevo titolo a consultarlo.

Se poi, dalle indagini in corso, delle quali si annuncia l’imminente conclusione (lo scritto risale al luglio 2015, ndr) e nuovi importanti risultati, dovessero emergere elementi nuovi circa quella vicenda, l’indagine può essere riaperta al fine di accertare eventuali depistaggi e nuove piste investigative.

Ma, di misteri la vicenda Marrapodi ne presenta tanti, di cui quello della morte non è che l’ultimo. Il notaio, tra i più noti della città, con una rete di relazioni istituzionali di alto livello, aveva infatti iniziato a collaborare con il Procuratore della Repubblica di Palmi sul tema della massoneria, uno dei rarissimi casi in cui un maestro venerabile rompe la regola del silenzio e riferisce all’autorità giudiziaria i segreti impenetrabili degli affari e delle relazioni della massoneria locale e nazionale con esponenti mafiosi, le deviazioni, gli interessi.

Di quella collaborazione si sa poco; e pochi furono i risultati, almeno apparentemente. Subito dopo, però Marrapodi inizia a collaborare con la Dda di Reggio Calabria e con quella di Messina. Ed è questa la fase che segnerà la sua triste e prematura fine, quale che ne sia stata la causa.Sì, perché Marrapodi non parla di vicende strettamente mafiose, parla di magistrati; ne parla a Reggio e a Messina, competente quest’ultima sui reati commessi dai magistrati reggini. Il notaio disse e spiegò, facendo nomi, raccontando affari, indicando connivenze e debolezze. Parlò a lungo anche di Rocco Musolino, il boss di Santo Stefano d’Aspromonte, e dei suoi rapporti eccellenti con magistrati reggini.

Se ne occupò la Commissione parlamentare antimafia della XIII legislatura e recentemente il Tribunale per le misure di prevenzione di Reggio Calabria, nel provvedimento di sequestro del ricco patrimonio appartenente al boss. Ne seguì un piccolo terremoto. Piccolo, perché i solerti organi di vigilanza sui magistrati, ministro della Giustizia e Csm decisero che i magistrati da vigilare e colpire non fossero quelli «su cui e di cui» Marrapodi parlava, ma solo quelli «con cui» parlava.

Quanto al notaio, un rapporto redatto non dalla Squadra mobile o dalla Digos, ma dal commissariato di pubblica sicurezza Centro, lo denunciava, dopo mesi di indagini e intercettazioni, per partecipazione ad associazione di tipo mafioso e così venne arrestato.

Nel frattempo, tra le tante intercettazioni telefoniche sulle utenze del notaio, calò un silenzio assoluto, fatta eccezione per quelle che riguardavano i magistrati di cui si fidava nella sua nuova attività di denuncia. Quelle intercettazioni vennero copiate, divulgate, vendute nelle cartolerie adiacenti piazza Castello.

Molti notabili reggini tirarono un sospiro di sollievo e con loro i collusi e gli intranei alle logge massonico-mafiose: speravano che avesse capito la lezione. Ma Marrapodi decise che doveva andare sino in fondo, e, appena uscito dal carcere, annunciò che avrebbe confermato le sue dichiarazioni in dibattimento e che aveva ancora altro da dire.

Da qui la sua morte e il definitivo velo di silenzio calato a protezione dei potenti da lui evocati. E’ certo che in quegli anni si giocò una grossa partita dentro e fuori la massoneria, dentro e fuori le istituzioni, dentro e fuori la ‘ndrangheta, i servizi segreti, la politica locale. I personaggi di cui il notaio parlava ne uscirono impuniti, ma persero prestigio e credibilità; la ‘ndrangheta ritrovò unità e nuovi equilibri, la magistratura reggina ne uscì divisa e sostanzialmente perdente, nonostante gli eccezionali risultati dell’operazione “Olimpia”.

Mai, come in quegli anni, Reggio rischiò di divenire teatro di omicidi in danno di magistrati, secondo lo stile palermitano. Attendo ora con curiosità di conoscere i risultati delle indagini condotte in questi anni.

Se davvero esse segneranno una nuova, decisiva, tappa nella ricostruzione dei poteri occulti che hanno dominato per decenni la città di Reggio e non solo, allora il capitolo delle rivelazioni del notaio Marrapodi non potrà che essere centrale e la sua morte, tipica, bisogna ricordarlo, del rituale della giustizia massonica, acquisterà il rilievo dovuto insieme a coloro che ne furono oscuri protagonisti. Altrimenti sarebbe tutto inutile.