La destra in mille pezzi. La Lega sfiducia Giorgetti e Meloni fa la paciera
di Giulia Merlo
Fonte: Domani
Questa volta ricomporre la maggioranza dopo l’ennesima rottura sarà più difficile del solito, per Giorgia Meloni. E se il governo non gode di buona salute ancora peggio sta la Lega, dilaniata dai sospetti interni con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sul banco degli imputati. Lo strappo si è consumato sulla legge più importante dell’anno – quella di Bilancio – e sul tema più delicato di tutti: le pensioni.
Le ultime quarantotto ore sono state un ottovolante di emendamenti, correzioni, dichiarazioni a mezza bocca con, in conclusione, dopo una notte di telefoni roventi, una incredibile marcia indietro rispetto alle modifiche in materia di previdenza previste dal maxiemendamento del governo ed elaborato dal ministero dell’Economia.
Poi ieri sera alle 20, subito dopo aver partecipato al tradizionale scambio di auguri con il presidente della Repubblica al Quirinale (Sergio Mattarella avrà manifestato un legittimo fastidio per quello che sta accadendo?) la premier Giorgia Meloni – rientrata dal Consiglio europeo di Bruxelles – ha convocato tutti per un vertice inatteso sulla manovra a palazzo Chigi.
Intorno al tavolo i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, quest’ultimo costretto a lasciare in fretta la presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa, e Giorgetti. Un’occasione per richiamare tutti all’ordine. Ma anche l’ennesima volta in cui la presidente del Consiglio è stata costretta a prendere in mano un pasticcio interno alla sua maggioranza, consumato mentre lei era impegnata all’estero.
Poi, in un secondo momento, i quattro sono stati raggiunti dal ministro per i rapporti col parlamento, Luca Ciriani, e dal viceministro all’Economia Maurizio Leo. Dopo la resa dei conti politica, infatti, è toccato ricomporre i cocci e capire come risolvere sia il buco da 2 miliardi nella legge di Bilancio sia come richiamare a rapporto i gruppi parlamentari.
Del resto, la premier è la prima a rendersi conto che il testacoda sulla Finanziaria ha offerto il fianco alle opposizioni e soprattutto ha mostrato come tutte le disfunzioni emergano appena lei volta le spalle. Tanto più che a deflagrare è stato un conflitto tutto intestino alla Lega, che ha fagocitato la credibilità dell’esecutivo.
Lega contro Lega
L’ultimatum era partito dal capogruppo al Senato Massimiliano Romeo e raccontato da Claudio Borghi: «Un aumento dell’età pensionabile non l’avremmo votato». Un modo indiretto per dire che la manovra sarebbe stata bocciata e che ha provocato l’ira della premier. Tuttavia le avvisaglie della fibrillazione dentro la Lega erano arrivate due giorni fa con le bellicose dichiarazioni di Armando Siri e di Borghi sulla «manina» ignota che aveva volontariamente pasticciato le norme sulle pensioni, incurante del fatto che l’abolizione della legge Fornero fosse la promessa di Salvini in campagna elettorale.
Peccato che la «manina» non potesse che essere quella del loro collega di partito Giorgetti, anche se oggi chi ha seguito lo scontro spiega che il riferimento era alla ragioniera dello stato, Daria Perrotta. Dopo la notte di fuoco, i pompieri leghisti si sono infatti prodigati a ridurre le proporzioni della rottura, spostando l’attenzione sull’utile capro espiatorio. «Nessuno scontro interno alla Lega», ha sorriso Romeo, raccontando che anche Giorgetti era d’accordo che «fosse possibile utilizzare fondi alternativi» rispetto a quelli delle pensioni e che «i tecnici e la ragioneria invece insistevano sulle pensioni». Insomma, tutta colpa di Perrotta.
A microfoni spenti, però, la realtà è che i parlamentari sono sempre più convinti che ormai Giorgetti abbia preso una direzione tutta sua e non risponda più al partito. Del resto, anche se l’emendamento fosse stato materialmente scritto da Perrotta, poca differenza fa: la ragioniera è donna fidata del ministro e di lui è la responsabilità oggettiva di ogni scelta, che non può che essere condivisa. Anche perché già una volta la tecnica era finita sotto attacco e Giorgetti era intervenuto per ribadire di avere «piena fiducia in chi lavora con me».
Il risultato è un divorzio nei fatti del ministro dal suo partito. O meglio, la certificazione che Giorgetti ha una sua agenda politica che è più sulla lunghezza d’onda di palazzo Chigi che su quella di via Bellerio e non considera prioritari i temi posti da Salvini. Il segretario, dal canto suo, è apparso ormai completamente fuori dai giochi della manovra e più impegnato a parlar d’altro. Come il ritorno al Viminale, vecchio sogno attualmente irrealizzabile ma – dopo l’assoluzione per il caso Open Arms – ancora più ambito. Se dentro la Lega c’è voglia di minimizzare, nel partito esiste anche una fronda più barricadera, che di quanto accaduto dà una lettura ancora diversa: l’attacco non era per Giorgetti, ma un modo per avvertire Meloni che il partito non è disposto a scendere a compromessi nemmeno quando davanti gli si para un suo ministro. «D’ora in poi non lasceremo passare una virgola», viene spiegato, con riferimento alle pensioni ma anche al decreto armi «che dovrà essere cambiato». La campagna elettorale, dunque, non è iniziata solo per Meloni.









