(di Lirio Abbate – repubblica.it) – Ha svolto un ruolo di cerniera tra la massoneria e la ’ndrangheta, rafforzando alcuni clan calabresi nei loro affari illeciti, attraverso i quali si sono arricchiti e sono diventati ancora più potenti.
È questa la figura tracciata dai magistrati di Catanzaro dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, penalista di fama, massone dichiarato. I giudici lo hanno condannato a 11 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Pittelli era uno degli imputati eccellenti del processo più importante mai celebrato in Calabria contro la ‘ndrangheta: “Rinascita Scott”. Istruito da Nicola Gratteri e dai pm Antonio De Bernardo, Anna Maria Frustaci e Andrea Mancuso, il fascicolo ha portato i carabinieri il 19 dicembre 2019 all’arresto di 334 persone. Durante i due anni e mezzo del dibattimento, i magistrati hanno delineato la figura di Pittelli, portando in aula prove e documenti relativi al suo coinvolgimento con i boss, descrivendo “una vischiosa ragnatela fatta di grandi e piccoli favori, di clientele, di corruzioni”, attraverso “i legami massonici”. Un sistema che, secondo quanto è emerso, ha sostenuto la candidatura alle elezioni politiche di Pittelli nel 2006. E in precedenza, come ha detto un collaboratore di giustizia, furono le logge massoniche a sostenere la sua l’elezione in parlamento nel 2001.
Ex democristiano, ha militato nel Ppi per poi approdare al Polo delle libertà. Il penalista calabrese è ricordato ancora per le sue gesta parlamentari: fu autore della corposa proposta di riforma dei codici penale e di procedura penale con altri due avvocati, l’allora deputato di An Sergio Cola, eletto a San Giuseppe Vesuviano e difensore di alcuni presunti camorristi, e il palermitano Nino Mormino, eletto nelle file degli azzurri e subito diventato vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera.
I tre volevano capovolgere l’intero codice di procedura penale. Chiedevano, tra l’altro, l’avviso di garanzia immediato, la possibilità di far scattare le manette solo nel caso di reati gravissimi e l’inutilizzabilità delle sentenze passate in giudicato. Una legge che avrebbe reso impossibile nel 2002 tutti i processi e le indagini antimafia. E non solo quelle. Gli indagati sarebbero stati subito informati delle inchieste a loro carico rendendo inutili intercettazioni, pedinamenti e l’utilizzo di infiltrati. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non avrebbero avuto alcuna valenza se non in presenza di riscontri “di diversa natura”. Come nel caso di più mafiosi che, durante un processo, separatamente tra loro, ne accusano un terzo di essere ritualmente associato all’organizzazione, o di aver ucciso qualcuno assieme a loro: con la riforma il giudice avrebbe dovuto assolvere l’imputato a meno che non ci fosse stato un elemento ulteriore a corroborare le testimonianze dei mafiosi.
Inoltre con la nuova legge Pittelli si sarebbe messa in dubbio l’esistenza stessa della mafia: in ogni dibattimento, senza tenere conto delle sentenze del passato, sarebbe stato necessario dimostrare che in Sicilia e in Calabria operano organizzazioni di tipo verticistico denominate “Cosa nostra” o ‘ndrangheta. Difficile credere che Pittelli, fra gli estensori della proposta non se ne fosse reso conto.
Allora tutto venne bloccato. Il processo “Rinascita Scott” che vede imputato l’ex parlamentare presenta però — vedi le coincidenze della vita — tutti quegli elementi d’accusa che la sua proposta di legge voleva modificare: sentenze, intercettazioni, pedinamenti e dichiarazioni di collaboratori, che invece adesso hanno condotto alla condanna di Pittelli.
“Nessuno criminalizza l’esercizio della funzione difensiva”, ha tenuto a sottolineare ai giudici il pm De Bernardo durante la requisitoria. “Si parla di ben altro, ma accanto a questa viene dato risalto al ruolo anche politico che ha rivestito in una certa epoca Pittelli”, aggiungendo le connotazioni di “ex parlamentare e massone. Cioè, come dire, nella qualità di tutte queste cose. Perché rileva? Perché mette in risalto il patrimonio di conoscenze, di rapporti e di possibilità che Pittelli — ben al di là della sua professione — mette sul piatto quando si interfaccia con la cosca Mancuso”. Parole con le quali il pm traccia la figura dell’imputato, personaggio importantissimo per la ’ndrangheta, tanto che senza di lui il livello di forza a cui è arrivato il boss Luigi Mancuso, secondo l’accusa, non sarebbe stato raggiunto se non “grazie a Pittelli”.