Le società del gruppo Perri, create dal padre Antonio fin dagli anni ’80, sono poi passate nella titolarità dei figli con atti di acquisizione, di partecipazione al capitale sociale, di donazione e di successione dopo che il capostipite della famiglia, nel 2003, è stato ucciso. Ma dagli accertamenti effettuati dalla Procura di Catanzaro e dalla Guardia di finanza è emerso che i tre figli destinatari del maxisequestro da 800 milioni di euro – Franco, Pasqualino e Marcello – vivono «con redditi irrisori, sicuramente inidonei anche solo a soddisfare le esigenze primarie di vita». Dall’analisi dei loro movimenti economico-finanziari è venuta fuori «una netta sproporzione rispetto ai redditi dichiarati o all’attività economica svolta».
La «pericolosità» dei Perri, ritenuti dalla Dda imprenditori di riferimento della cosca Iannazzo, è stata così perimetrata dagli inquirenti dai primi anni ’80, periodo in cui i pentiti individuano il padre in rapporti con le cosche lametine, fino all’attualità, visto che al figlio Franco, considerato il dominus del gruppo, è contestata l’accusa di associazione mafiosa dal 2003 fino a oggi. È su queste basi che il Tribunale ha ritenuto «sussistenti» i presupposti per il sequestro.
Nel 1996 alla famiglia Perri facevano capo la ditta individuale intestata alla moglie di Antonio e “La Nave”, di cui Pasqualino era il socio gerente. “Le due attività – si legge nel decreto di sequestro – avevano un’autonomia soltanto formale, presumibilmente per aspetti fiscali. L’effettivo titolare e conduttore di entrambe era certamente Antonio Perri, che vi prestava la sua opera con continuità anche se ufficialmente non figurava né risultava ricoprire alcuna funzione”. Le attività si svolgevano nello stesso immobile, la giovane età dei figli “escludeva una loro autonoma capacità imprenditoriale e gli altri soci erano da ritenere semplici prestanome”.
L’attività dei Perri sarebbe esplosa “improvvisamente” nel 1982: da un volume d’affari di circa mezzo miliardo di lire si passa a oltre due miliardi nel 1983 fino agli oltre 4 miliardi nel 1984 e nel 1985. Un boom che non trovava immediate e logiche spiegazioni né i modesti utili dichiarati, anche se verosimilmente “compressi” per motivi di elusione fiscale, giustificano i rilevanti incrementi patrimoniali nel breve periodo.
Un’altra anomalia, avvenuta 15 anni più tardi, salta agli occhi degli inquirenti. Riguarda il pezzo pregiato dell’impero di famiglia, il centro commerciale “Due Mari”, la cui società ha la titolarità giuridica degli immobili utilizzati per la gestione dell’attività e gestisce le singole unità locali di cui si compone l’intero polo. Nel 2001 il Centro è stato costituito da persone estranee ai Perri mentre l’anno prima l’intero capitale sociale del valore di 4,5 miliardi di lire è andato alla società nella titolarità della famiglia.
In seguito sono messi in atto forti investimenti con impegnative anticipazioni monetarie effettuate dai soci. Ma, dopo qualche anno, i fratelli Perri e la madre acquistano al solo valore nominale l’intero capitale sociale di una società che ha triplicato i propri investimenti e il proprio patrimonio.
Dunque, una società acquisita nel 2000 a 4,5 miliardi di lire viene venduta nel 2004 al solo valore di 30 mila euro. Un’operazione che non ha nessuna ragione economica e non può fondarsi su nessuna regola di mercato. La società “Due Mari”, secondo la procura, sarebbe stata quindi utilizzata come una sorta di cassaforte per la famiglia Perri, poiché dall’esame dei bilanci è emersa la presenza di crediti della società nei confronti dei soci persone fisiche. Fonte: Gazzetta del Sud