Lettere a Iacchite’: “15 ore al Pronto soccorso di Paola: lo scaricabarile tra i reparti e il ruolo dei medici cubani”

Egregio Carchidi,

Qualche giorno fa mi sono trovato a fare una sorta di “inchiesta sul campo” inaspettata, accompagnando un mio congiunto al pronto soccorso di Paola per un problema ortopedico. Abbiamo trascorso lì ben quindici ore, un tempo che, per quanto faticoso, mi ha dato la possibilità di osservare in prima persona la realtà variegata dell’umanità calabrese in un contesto che definire complicato è dir poco.

In queste ore d’attesa, mi ha colpito l’incomunicabilità diffusa: i pazienti, spesso senza ricevere alcuna notizia o rassicurazione, erano lasciati a sé stessi, e il personale sembrava stanco, distante e persino scontroso, esercitando una sorta di autoritarismo misto a vittimismo. Persino chi, per ruolo, sarebbe al massimo deputato a spingere una barella o una carrozzina, si comportava come se fosse un direttore generale. È un clima che pesa e non facilita certo la gestione di situazioni delicate.

Questa stessa incomunicabilità sembra estendersi ai rapporti tra pronto soccorso, radiologia e ortopedia, un vero e proprio scaricabarile tra i reparti. La sensazione è che, vista la disfunzione ormai consolidata della sanità, il caos sia preferito quasi intenzionalmente. In fondo, se a Cosenza regna il disordine, perché Paola dovrebbe essere un’isola felice?

Eppure, la giornata, per quanto estenuante, ha avuto un epilogo interessante: un medico cubano ha visitato il paziente in modo scrupoloso, toccandolo con le mani come si faceva un tempo e fornendo risposte precise, che trasmettevano un autentico desiderio di risolvere il problema. La sua umanità e dedizione mi hanno colpito.

Ma non posso fare a meno di chiedermi se questa disponibilità non provochi, in fondo, qualche malumore e invidia nel personale locale, quasi che il modo di fare dei cubani fosse percepito come un dispiacere.

Qui sorgono alcune domande importanti. Perché la nostra attesa è finita a tarda sera, quando il personale era prevalentemente cubano? Come sono trattati questi sanitari cubani? Vivono in ospedale, accampati senza comfort essenziali? Forse sono sempre di turno durante le notti e nei giorni festivi? E, soprattutto, le loro turnazioni sono reali o di comodo?

Ecco, caro Carchidi, un’esperienza come questa potrebbe davvero fare la differenza per un giornalista che voglia indagare a fondo la situazione e, magari, portare alla luce verità importanti. Da cittadino, mi sento di suggerire che una simile “inchiesta sul campo” meriterebbe l’attenzione di chi, più di me, ha il dovere e la capacità di raccontare la realtà.

Cordialmente, lettera firmata