L’Italia di Draghi: 235 miliardi di euro per la “ripresa” del capitalismo

Intervenendo in parlamento sul PNRR Draghi si appoggia a De Gasperi

235 miliardi di euro per la “ripresa” del capitalismo italiano

Ne beneficeranno soprattutto le grandi imprese. Meno controlli, meno barriere, più mercato. Salvaguardata l’autonomia regionale differenziata. Al Sud vada il 75% delle risorse, non il 40% programmato. Insufficienti risorse alla sanità. Nazionalizzare le aziende farmaceutiche. L’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria inutile e dannosa. Transizione ecologica insoddisfacente.

Il banchiere massone tiene stretta la regia della gestione del Piano

Il 26 e 27 aprile Mario Draghi si è recato in parlamento per presentare a deputati e senatori il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), finanziato con 191,5 miliardi netti dal programma europeo Next Generation-Eu.

Il piano era arrivato in parlamento solo un’ora prima dell’inizio della sua discussione in aula, a quattro giorni dalla scadenza per l’invio alla Commissione europea. E ciò dopo che per due mesi era stato rimaneggiato alla completa insaputa del parlamento e del Paese, e visto solo nella stretta cerchia dei ministri “tecnici” nominati da Draghi e del titolare dello Sviluppo economico Giorgetti; mentre gli altri ministri lo avevano visto solo in Cdm per l’approvazione finale prima dell’invio al parlamento.

Una scelta criticata negli interventi di diversi parlamentari, in particolare dalla fascista Giorgia Meloni, che però in linea con la promessa “opposizione patriottica” non ha caricato i toni come faceva col governo precedente e ha finito per astenersi sulla mozione del governo. Nicola Fratoianni è intervenuto a nome di Sinistra italiana ancor prima di Draghi per chiedere, inutilmente, di rinviare di alcuni giorni la discussione per dare al parlamento il tempo di approfondire “questo passaggio così rilevante” affinché il parlamento non fosse “ridotto per l’ennesima volta a un ruolo di ratifica”. Tutte critiche a cui il banchiere massone ha tagliato corto sostenendo nelle due repliche in Camera e Senato che la scelta di non sforare il termine nominale del 30 aprile fissato dalla Ue, e quindi di non rinviare la discussione in aula, “non è stata una scelta mediatica, come si è detto: è che, se si arriva prima, si ha accesso ai fondi prima”.

Prima di esporre il piano, dicendo che in esso è contenuto “il destino del Paese, la sua credibilità e reputazione, come fondatore dell’unione europea e protagonista del mondo occidentale”, Draghi ha fatto appello all’unità del parlamento e del “mio popolo” (sic), richiamandosi allo spirito della ricostruzione post-bellica. A questo scopo ha citato una frase del leader democristiano De Gasperi sulla necessità di “sacrificarsi per il bene comune” per “preparare nel modo migliore l’Italia di domani”.

Peccato però, come vedremo qui di seguito esaminandone alcuni punti principali, che questo PNRR non sia un piano che fa gli interessi del popolo, bensì della sola classe dominante borghese e del sistema capitalista. Sistema che si prefigge di salvare dalla crisi, con un’iniezione di liquidità senza precedenti e la rimozione di ogni ostacolo alla rapidità di impiego delle risorse, alla concorrenza e alle ristrutturazioni, per aumentare la produttività e renderlo più competitivo sui mercati internazionali. Mentre lascia solo le briciole ai lavoratori e alle masse popolari, al Mezzogiorno, all’occupazione, alla sanità, alla scuola, alle donne, ai giovani e alla difesa dell’ambiente.

Differenze tra il PNRR di Draghi e quello di Conte

Tra i motivi addotti per far cadere il governo di Conte c’erano il ritardo nell’elaborazione del piano, la regia troppo centralizzata su Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia, il mancato coinvolgimento del parlamento nella sua stesura e il piano impresentabile in sé e per sé. Per il ritardo e per il mancato coinvolgimento del parlamento abbiamo visto com’è andata. Se poi la regia di Conte era troppo centralizzata e pletorica, quella di Draghi non lo è certo da meno: intanto ci sarà una “cabina di regia” istituita presso la presidenza del Consiglio, di cui oltre a Draghi ne faranno parte tutti i suoi ministri “tecnici” coinvolti nel piano, a cominciare da Colao (Transizione digitale) e Cingolani (transizione ecologica), Franco (Mef), Giovannini (Infrastrutture), e Giorgetti (Mise). Insomma, Draghi come e più di Conte si tiene ben stretta la regia della gestione politica del piano.

Poi ci sarà un secondo livello per le funzioni di “monitoraggio, controllo, rendicontazione e contatti con la Commissione europea” affidato al ministro dell’Economia; e infine un terzo livello per “l’attuazione delle iniziative e delle riforme, nonché la gestione delle risorse finanziarie” affidato ai vari ministeri coinvolti e alle Regioni ed Enti locali, che potranno nominare commissari straordinari per ciascuno delle centinaia di interventi.

Quanto al piano in sé, le differenze tra la versione “impresentabile” di Conte e quella di Draghi dotata invece di “un’anima, una direzione, una visione” (intervento di Renzi in Senato), bisogna cercarle non certo nella struttura generale del PNRR, che è rimasta esattamente identica, con la suddivisione nelle stesse 6 “missioni” (digitalizzazione, transizione ecologica, infrastrutture, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute) e con gli stessi identici 16 “cluster”, comprendenti a loro volta gli stessi progetti e interventi specifici del piano di Conte. Ci sono invece delle differenze nella ripartizione dei fondi europei tra i vari progetti che possono far capire che impronta ha voluto imprimere Draghi al vecchio progetto del suo predecessore.

Più finanziamenti diretti e indiretti alle imprese

Occorre premettere che i due piani sono un po’ diversi nei saldi perché quello di Conte partiva da una base di circa 211 miliardi (tra fondi Next Generation-Eu e altri fondi stanziati per progetti già in essere), e arrivava a 224 miliardi aggiungendo i 13 miliardi del fondo React-Eu per la politica di coesione; mentre quello di Draghi parte dai 191,5 miliardi netti del NG-Eu in senso stretto, aggiungendo i 13 del React-Eu più 30,64 miliardi di un “fondo complementare”, finanziato con debito italiano per poter sostenere i progetti più a lunga scadenza che vanno oltre il termine fissato al 2023, arrivando ad un totale di 235,14 miliardi (vedi la tabella con la composizione del PNRR qui accanto pubblicata). Nel piano di Draghi ci sono quindi 11 miliardi in più di quello di Conte, altrimenti i due piani sarebbero stati proprio identici, miliardo più miliardo meno in questa o quella voce. Come sono stati spesi questi 11 miliardi in più?

Di questi 11 miliardi, circa 3,8 sono stati aggiunti alla missione 1 (digitalizzazione), altri 5,3 alla missione 4 (istruzione e ricerca) e altri 2 alla missione 5 (inclusione e coesione), i saldi delle altre tre missioni (transizione ecologica, infrastrutture e salute) sono rimasti più o meno inalterati. E’ interessante vedere però come sono stati ripartiti questi aumenti tra le varie componenti delle suddette missioni. Per quanto riguarda la digitalizzazione (missione 1) i 3,8 miliardi di aumento risultano da una riduzione di 800 milioni dalla componente 1 riguardante la Pubblica amministrazione (Pa) e un aumento di 4,4 miliardi alla componente 2 riguardante la “digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo”; cioè sostanzialmente gli incentivi alle imprese, portando questa voce a quasi 31 miliardi, il 13,2% di tutto il PNRR.

All’interno di questo investimento (considerando solo i fondi del NG-Eu), la parte del leone la fa la transizione industria 4.0 da 13,97 miliardi (incentivi fiscali come iperammortamenti per innovazione tecnologica digitale), a cui si aggiungono 750 milioni di contributi per macchinari e impianti per produzioni di avanguardia. Per la gioia dell’ex ad di Vofafone, il ministro Colao, ci sono poi altri 6 miliardi per le reti ultraveloci e il 5G (per portarlo nelle zone dove gli operatori privati non hanno convenienza); 1,29 miliardi per l’aerospazio (alcune Ong sospettano che dietro questo investimento si possano nascondere spese per nuovi sistemi d’arma per la Difesa), e 1,95 miliardi per sostenere le filiere del made in Italy.

Sommando i 30,98 miliardi alle imprese con gli altri 31,46 destinati alle infrastrutture (cioè sostanzialmente all’alta velocità ferroviaria, che ne assorbe quasi 28), si arriva alla conclusione che più di un quarto di tutte le risorse del PNRR vanno direttamente o indirettamente alle imprese (e segnatamente quelle del Nord, a più alto potenziale tecnologico e produttivo) e alle grandi opere infrastrutturali.

Le “riforme strutturali” chieste dalla Ue in cambio dei soldi

La mano di Draghi ha dato quindi un tangibile impulso a convogliare ancor più le risorse del PNRR per rivitalizzare il capitalismo italiano, non a caso le lamentele che Confindustria non lesinava al piano di Conte sono sparite come d’incanto verso quello del banchiere massone. Ma c’è anche un’altra importante differenza in cui si vede chiaramente l’intervento della mano di Draghi, ed è il capitolo delle “riforme strutturali” che la Ue chiede in cambio dei soldi, sulle quali le pressioni di Bruxelles con Draghi si erano particolarmente intensificate alla fine di aprile. Riforme che nel piano di Conte erano appena accennate e soprattutto senza impegni precisi, mentre nel PNRR di Draghi occupano quasi 50 pagine, con un cronoprogramma di approvazione serratissimo, concentrato soprattutto nel 2021 a partire dallo stesso mese di maggio.

Queste riforme fanno seguito alle raccomandazioni della Ue all’Italia, richiamate non a caso in dettaglio nel testo, tra cui non solo quelle di favorire le transizioni verde e digitale, ma anche di attuare pienamente la riforma pensionistica, attuare le liberalizzazioni del mercato (e dei servizi in particolare), attuare le privatizzazioni per ridurre il debito, favorire il lavoro flessibile, fornire liquidità alle imprese, attuare la riforma del fisco per alleggerire le tasse sul lavoro e quella della giustizia civile e penale per ridurre la durata dei processi.

Le riforme in questione sono:

1) Riforma della Pa, con l’aumento, svecchiamento e formazione del personale, la liberalizzazione e semplificazione delle procedure di approvazione e attuazione dei provvedimenti, l’eliminazione di autorizzazioni “non giustificate da motivi imperativi di interesse generale” e di tutti gli “adempimenti non necessari”. Il tutto sarà compreso in un decreto legge da varare entro maggio riguardante “provvedimenti urgenti di semplificazione”.

2) Riforma della giustizia e dell’ordinamento giuridico, che prevede tra l’altro l’accelerazione del procedimento penale con l’ampliamento dei riti alternativi, “maggiore selettività nel ricorso all’azione penale”, e la revisione della legge Bonafede sulla prescrizione.

3) “Semplificazione e razionalizzazione” degli appalti pubblici e concessioni, con la proroga fino al 2023 del decreto semplificazioni del precedente governo, semplificazione di tutti i controlli (antimafia ecc.), l’uso sistematico del “silenzio-assenso” ridotto a 30 giorni, una speciale VIA statale semplificata (Valutazione di impatto ambientale) in materia ambientale per le opere del PNRR e una forte riduzione dei controlli per gli appalti sul modello di alcuni Paesi europei. Non è l’abolizione pura e semplice del codice degli appalti come voleva Salvini, ma ci va molto vicino, tanto che il leader leghista lo ha sottolineato con enfasi nel suo intervento in Senato. Anche queste misure saranno oggetto di un DL entro maggio 2021.

4) Disegno di legge sulla “Promozione della concorrenza”, da presentare entro il prossimo luglio, per “rimuovere le barriere” all’entrata nel mercato italiano di grandi impianti idroelettrici, di distribuzione di gas naturale, concessioni autostradali e vendita di energia elettrica, con completa liberalizzazione del regime attualmente a tutela pubblica entro il 2023.

Le amministrazioni pubbliche dovranno dare una “motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato” e della scelta di mantenere in vita le aziende pubbliche e municipalizzate di servizi (acqua pubblica, rifiuti urbani ecc.), e garantire comunque “una esaustiva motivazione dell’aumento della partecipazione pubblica”. Anche i contratti pubblici dovranno essere limitati nel tempo come quelli privati.

“Riforme di accompagnamento” al piano

Tra le “riforme di accompagnamento” al piano c’è quella del fisco, anche questa da approvare entro luglio con una legge delega, che prevede l’alleggerimento dell’Irpef “con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo e di ridurre gradualmente il carico fiscale, preservando la progressività e l’equilibrio dei conti pubblici”. Che cosa questo significhi esattamente non viene spiegato. Anche perché è impossibile ridurre le tasse, mantenendo anche la stessa (già ridotta al minimo) progressività attuale, senza sballare i conti pubblici: a meno di non tagliare i servizi. Su questo Draghi in parlamento non si è ancora esposto.

E’ previsto anche il completamento del percorso del federalismo fiscale, già in corso dal 2015, entro il primo quadrimestre del 2026. Per le Regioni il federalismo fiscale è in corso di “approfondimenti” da parte del Tavolo tecnico istituito presso il Mef. Lungi dal rimettere in discussione l’attuale assetto federalista di fatto della nazione, che ha dimostrato i suoi disastrosi effetti proprio con questa pandemia, Draghi si impegna invece a ufficializzarlo realizzando la famigerata “autonomia differenziata”, pagando così dazio al supporto della Lega al suo governo europeista.

Alla luce di quanto detto delle differenze tra le due versioni del PNRR, si comprende ancor meglio il senso dell’operazione politica che ha portato alla defenestrazione di Conte e alla sua sostituzione col banchiere massone Draghi, molto più affidabile del suo predecessore per l’Ue, i mercati finanziari internazionali e gli industriali nostrani, oltre che per gli Usa di Biden.

L’iniqua distribuzione delle risorse del PNRR

Abbiamo già detto che la digitalizzazione del sistema produttivo più le grandi infrastrutture assorbono da sole circa un quarto di tutte le risorse. Il ponte di Messina non è rientrato nel PNRR per i limiti temporali stretti, ma potrebbe essere rimesso in moto con fondi ad hoc, come Draghi ha lasciato intendere in parlamento. Alle imprese 4.0 vanno ben 30,98 miliardi (il 13,2%), mentre alle politiche del lavoro neanche la metà: 12,63 miliardi pari al 5,4%. Alla tutela del territorio e delle acque vanno 15,37 miliardi (6,5% del totale), molto meno dei 22,26 miliardi destinati all’efficienza energetica e riqualificazione degli edifici, di cui 18 assorbiti dal superbonus edilizio che va a vantaggio soprattutto dei proprietari abbienti. Alla sanità, che dovrebbe avere una priorità assoluta, così come il Mezzogiorno, il lavoro e la scuola, invece dei 60 miliardi chiesti a suo tempo da Speranza, vanno 20,22 miliardi, solo l’8,6% delle risorse, di cui appena il 3,8% alla sanità territoriale.

Al Sud sarebbe dovuto andare almeno il 75% delle risorse per dare finalmente una svolta decisiva al suo secolare sottosviluppo. La stessa Commissione europea raccomandava di destinare circa il 60% dei fondi europei a colmare il divario col Mezzogiorno. Invece il piano di Draghi ne distribuisce appena il 40%, e fra l’altro sotto forma di incentivi alle imprese per assunzioni, che non sono investimenti pubblici diretti sul territorio e sono generalmente di breve respiro: “L’obiettivo – ha detto infatti Draghi alla Camera – è rendere il Mezzogiorno un luogo di attrazione di capitali privati e di imprese innovative”. Invece noi chiediamo che lo Stato intervenga direttamente nell’economia per creare vero lavoro stabile, a partire dalla nazionalizzazione dell’ex Ilva di Taranto. Al Senato, irritato per le numerose critiche sulle poche risorse riservate al Sud, il premier ha replicato gelidamente che “le risorse saranno sempre poche, se uno non le usa”, scaricando così la colpa sul Meridione stesso e la sua “storica inerzia che bisogna superare”.

Per di più una notevole parte delle poche risorse per il Sud sono destinate all’alta velocità ferroviaria, come la faraonica quanto inutile tratta Salerno-Reggio Calabria, che avrà un impatto devastante sull’ecosistema appenninico e costiero, non si basa su un serio studio costi/benefici e servirà solo all’utenza più abbiente per guadagnare circa 80 minuti quando sarà completata l’intera tratta, minimo nel 2030. Mentre solo le briciole (circa 4 miliardi sui 24,77 del NG-Eu di investimenti sulla rete ferroviaria nazionale) andrà all’ammodernamento delle linee regionali, all’elettrificazione e alle stazioni del Sud, a fronte di circa 15 miliardi destinati alla rete ferroviaria AV del Nord, alle linee AV di collegamento con l’Europa e ai nodi metropolitani del Nord.

Molto acutamente la senatrice Nugnes del Gruppo misto-LeU (ma ha votato no in dissenso col suo gruppo), ricordando a Draghi che Domenica 25 aprile in Piazza del Plebiscito a Napoli c’era una manifestazione di 500 sindaci a protestare contro l’iniqua distribuzione dei fondi, e il lunedì davanti a Montecitorio manifestavano contro il PNRR governativo i rappresentanti dei 1.400 movimenti aderenti alla Società della cura, ha bollato questo piano come “un piano scritto da MCKinsey su mandato di Confindustria Nord”.

Una transizione pseudo-ecologica

La transizione ecologica, che assorbe la maggiore quota di investimenti (40%), è assolutamente insoddisfacente, e anche a detta di tutti i movimenti ecologisti punta più ad un restyling pseudo-ecologico del sistema industriale e produttivo che ad una vera “rivoluzione verde”, come viene chiamata nel PNRR. Soprattutto viene giudicato nettamente insufficiente l’aumento di energia rinnovabile di 4,2 GW (miliardi di Watt) da qui al 2026, che non consente di raggiungere l’obiettivo europeo del 32% di consumo elettrico da fonti rinnovabili entro il 2030. Ci vorrebbero invece almeno 6 GW ogni anno. Insoddisfacenti sono giudicati anche gli interventi sul ciclo dei rifiuti, le bonifiche ambientali, la difesa della biodiversità e della qualità dell’aria e l’economia circolare.

Quanto all’idrogeno, su cui punta parecchio il ministro Cingolani come alternativa ai gas di origine fossile (nel piano sono destinati ben 3,19 miliardi), c’è il sospetto che in realtà non si tratti di idrogeno verde (prodotto da acqua per elettrolisi e quindi con ciclo totalmente esente da CO2), bensì per la maggior parte del ben più economico (e appetibile per i grandi gruppi energetici e l’industria) idrogeno blu, prodotto da gas naturale con produzione di CO2; che andrebbe poi stoccata in giacimenti esausti (con pericolo sismico), come vorrebbe fare Eni al largo di Ravenna. Inoltre per la difesa del clima c’è solo l’impegno a tagliare di 3,58 milioni di tonnellate di CO2 anziché i 160 milioni che sarebbero necessari per rispettare l’obiettivo del 55% di abbattimento entro il 2030.

Istruzione e ricerca più legate alle imprese

Sull’istruzione e la ricerca il piano investe quasi 31 miliardi del NG-Eu, ma per quale modello di scuola e di ricerca? I 4,6 miliardi del piano asili nido per creare altri 228 mila posti sono nettamente insufficienti, dato che per raggiungere lo standard europeo del 33% ne occorrerebbero almeno il triplo. In compenso si destina 1,5 miliardi del sistema degli ITS (istituti tecnici statali a cui si accede dopo la scuola secondaria in alternativa all’università), su cui Draghi punta molto con l’obiettivo di raddoppiare il numero dei diplomati da immettere subito nel mercato del lavoro, soprattutto in collegamento col programma industria 4.0. Gli studenti verrebbero instradati verso gli ITS già dal 4° e 5° anno della secondaria, con appositi corsi di 30 ore l’anno. Previsti anche laboratori 4.0, meccanismi di “premialità” e la formazione di docenti personalizzata sulle esigenze delle aziende locali. Il modello sarebbe quello sperimentato in Emilia-Romagna “scuola-università-impresa”.

Invece poi di finanziare robustamente la ricerca pubblica e di base, come chiedevano i ricercatori, il piano punta tutto sulla sinergia tra ricerca e impresa e tra pubblico e privato. Ci sono 11,44 miliardi del NG-Eu suddivisi in una quantità di “progetti di significativo interesse nazionale”, di partenariati tra imprese, università e centri di ricerca privati, incentivi per migliaia di assunzioni con borse di studio di dottorato con cofinanziamento privato, finanziamenti a start-up, e così via. Tra l’altro circa 2,5 miliardi vanno a finanziare programmi che prevedono il coinvolgimento di centinaia di aziende che ricadranno non sotto la competenza del Mur ma del Mise di Giorgetti, un favore molto gradito agli appetiti clientelari della Lega.

La sanità è stata lasciata indietro

Infine, la salute è la vera cenerentola del piano di ripresa e resilienza, quella che ha ricevuto la quota minore dei fondi europei: 15,63 miliardi (solo NG-Eu), di cui 7 per la medicina territoriale, con la creazione di 1.288 “case della comunità” (praticamente ambulatori di piccolo intervento e diagnosi), l’assistenza domiciliare e la telemedicina, e la creazione di piccoli “ospedali di comunità” (20/40 letti, a carattere più che altro infermieristico). Gli altri 8,63 miliardi vanno per metà all’ammodernamento tecnologico e digitale delle attrezzature e strumentazioni ospedaliere e all’aumento di 3.500 terapie intensive, e per metà per il fascicolo sanitario digitale, la ricerca biomedica e la formazione del personale sanitario e manageriale.

Su questo ultimo capitolo del piano sono piovute le critiche dei medici di famiglia aderenti alla Fimmg, sia sulle case che sugli ospedali di comunità, dove non è chiaro il ruolo dei medici, e temono che questo sistema apra le porte al privato accreditato che potrebbe subentrare ai medici di base accentrando tutta l’assistenza a fini speculativi. Molto critica anche l’Anaao, che raccoglie oltre 20 mila iscritti tra medici e dirigenti sanitari, che denuncia tra l’altro l’assenza totale di investimento nell’assunzione di nuovo personale, per aumentare la dotazione organica gravemente falcidiata da decenni di tagli e di blocco del turn-over, così come l’assenza di fondi per eliminare la mobilità sanitaria dal Sud al Nord, “che aumenta le disuguaglianze finanziando i sistemi sanitari regionali ricchi con i soldi di quelli poveri”.

Non solo facciamo nostre queste denunce dei medici, ma rivendichiamo che sia abolita la regionalizzazione della sanità e che la sanità privata in convenzione sia ripubblicizzata. Il Sistema sanitario nazionale deve essere rifinanziato adeguatamente, per una sanità pubblica, universale, laica e gratuita. Ed è sempre più vitale e indifferibile la nazionalizzazione delle aziende farmaceutiche e il diritto universale ai vaccini e ai farmaci per tutti.

Non ci potrà mai essere unità tra proletariato e borghesia, tra oppressori e oppressi, tra sfruttatori e sfruttati. Specie con questo governo Draghi del capitalismo, della grande finanza e dell’Ue imperialista.

05.05.2021

(Articolo de “Il Bolscevico”, organo del PMLI, n. 18/2021 e pubblicato sul sito www.pmli.it)