L’Oscar del pensiero unico (di Natalia Aspesi)

(Natalia Aspesi  la Repubblica) – Non ci fosse stato Will Smith a ridare verità (anche se finta come si sospetta) alla più soporifera e maldestra notte degli Oscar (la novantaquattresima!), avremmo potuto dedicare una prece al cinema morituro per sua stessa volontà.

In una scenografia da teatrino oratoriale un maschio nero, dimentico di #BlackLivesMatter, ha dato uno sganassone a un altro maschio nero, celeberrimo comico, ritenendosi lui insultato da una battuta forse non elegante riferita alla moglie, che solo un paio di anni fa avrebbe fatto sorridere (infatti prima di indossare l’armatura di cavalier cortese anche Smith aveva riso).

Ma quando mai si ride oggi (forse alle gare di flatulenze o ai gatti che baciano galline su TikTok?) se siamo tutti lì frementi in attesa di offenderci? Infatti si è offesa l’Academy, perché nel mondo finto di oggi (in quello vero c’è la guerra) il nero non picchia né neri né bianchi, e noi signore cui nulla sfugge abbiamo subito accusato lo schiaffeggiatore di essere alfiere del patriarcato, in quanto doveva lasciare che fosse la sua magnifica signora a salire sul palco a difendere manescamente la sua bella testolina nuda (alopecia) che se non la riteneva adatta alla serata poteva banalizzare con una parrucca. Poi, si sa, il peccatore Smith ha chiesto scusa perché la violenza è una brutta cosa e tutti, tranne i russi, siam tornati buoni.

Nella sua lunga storia l’Academy ha assegnato molti Oscar a vanvera, questa volta però con una sottomissione ideologica che travalica l’idea del valore cinematografico. Va bene l’inclusione, ovvio, che dovrebbe essere soprattutto un problema politico, economico e sociale: ma l’arte, e il cinema talvolta lo è, dovrebbe fuggire da conformismo, buonismo, ed essere sorprendente, persino trasgressiva, soprattutto mai ipocrita; almeno così era sino al più recente passato.

Già quest’ anno la scelta dei candidati era blanda, rassicurante, un po’ noiosa, impegnata a evitare sviste di genere o di diversità nel terrore di conseguenti ammutinamenti di massa.

Negli ultimi anni i premi avevano già rispettato i codici dell’inclusione detta un tempo democrazia: le disuguaglianze di classe (Parasite , 2020), il passato razzista (Green Book, 2019), la muta e il mostro (La forma dell’acqua, 2018), l’omosessualità (Moonlight, 2017), la pedofilia nascosta (Spotlight, 2016).

Ma questa volta si è esagerato nel privilegiare la mediocrità purché buona, miglior film ovviamente diretto da una donna, con la famigliola di sordi, migliori attori nei biopic sul babbo delle sorelle Williams tenniste nere, e su una predicatrice evangelica e un po’ peccatrice ma che si dice femminista; attori non protagonisti una nera lesbica e un vero sordo.

Tanto per includere oltre ogni limite, sul palcoscenico il trans operato e pure una signora grassa ma non so in quale veste. Proprio non si poteva escludere Il potere del cane con le sue 12 candidature, premiato per la regia (una donna ovvio) e Belfast per la sceneggiatura originale, forse – con il giapponese Drive my car – i soli tre film che non saranno dimenticati.

Oltre all’atomica, mi fa molta paura un mondo chiuso nella tirannia di una uguaglianza impossibile, bigotta e disonesta perché le inclusioni vere sono altre. Di cosa si ha paura, del linciaggio se non si aderisce al pensiero unico? Si vuole piacere a tutti a tutti i costi? Oppure ci stiamo abituando alla sottomissione al più forte?