Psicosi da dimissioni: se lascia, Beppe frega il Pd e spacca la destra
Di Lorenzo Giarelli
Beppe Sala sarà in Consiglio comunale oggi e solo a lui, adesso, spetta la decisione se proseguire o meno. Ma lo scandalo politico che travolge la giunta di Milano provoca un paradosso: non è soltanto il Pd, azionista di maggioranza della coalizione, a sperare che il sindaco vada avanti. Dimissioni immediate del sindaco troverebbero infatti impreparata la destra, con conseguente scontro interno per la candidatura nel bel mezzo di tavoli già complicati per le Regionali d’autunno.
Ecco allora che se Sala prendesse tempo farebbe comodo a molti. Quanto al sindaco, lo raccontano provato. Vorrebbe continuare, ma sullo sfondo restano possibili sviluppi dell’indagine che potrebbero aumentare la pressione prima di tutto su di lui. Sul tavolo però, negli incontri di queste ore col Pd, ha posto la questione stadio: se andrà avanti, Sala vuole poter portare a termine il controverso dossier sulla cessione di San Siro a Milan e Inter. Una storia che si trascina da anni, con le società che a un certo punto hanno minacciato di costruire altrove (il Milan a San Donato, l’Inter a Rozzano) e che ora sembra essere arrivato quasi a meta. In teoria, Sala avrebbe dovuto portare nella giunta di domani la delibera per l’ok alla cessione, da trasmettere poi in Consiglio con l’obiettivo di approvarla entro il 31 luglio, ma il sindaco – che comunque resta favorevole all’operazione – ha deciso di congelare l’iniziativa. Fonti di maggioranza ipotizzano che, anche se Sala decidesse di restare in carica, se ne parlerebbe tra qualche settimana.
Da parte sua, il Pd invoca discontinuità, ma non c’è un singolo esponente dem che abbia chiesto un passo indietro di Sala. Tra le varie ragioni, pesa anche la prospettiva della prossima campagna elettorale, motivo per cui il partito di Elly Schlein spera di non essere messo nei guai dalle dimissioni dell’ex Mr Expo. Come potrebbe gestire il Pd una campagna elettorale con un sindaco appena dimesso e un’inchiesta ancora in corso, per di più dopo che il Nazareno si è speso in difesa della giunta? Meno complicato sostenerlo fino a fine mandato prendendone però gradualmente le distanze.
A Milano i sondaggi sono ottimi e accredita(va)no a Pierfrancesco Majorino, il candidato più credibile, vantaggi addirittura in doppia cifra rispetto ad alcuni nomi papabili della destra, ma l’imbarazzo di una simile campagna elettorale potrebbe rimescolare i valori. Sempre che dall’altra parte si decidano.
Il comportamento di FdI è ambiguo. A livello locale, i meloniani chiedono a gran voce le dimissioni di Sala con proteste in Consiglio e folklorismi social di dubbio gusto, come quello del consigliere milanese Enrico Marcora che ieri ha pubblicato un fotomontaggio di Sala con la tuta da carcerato. A Roma, i più alti esponenti del governo, da Giorgia Meloni a Guido Crosetto, invocano il garantismo.
Poi c’è Ignazio La Russa, che gioca una sua partita: da giorni pretende il passo indietro di Sala (“non per l’inchiesta, ma perché Milano è bloccata”) e lancia messaggi in bottiglia il cui significato è che a dare le carte per decidere il candidato in città dovrà essere lui.
Peccato che in Forza Italia abbiano tutt’altre intenzioni. La Russa finora ha spinto Maurizio Lupi, raccogliendo consensi in parte della Lega, ma i forzisti vorrebbero un civico o comunque un nome a loro gradito. Ne sono stati sondati parecchi, da Ferruccio Resta ad Alessandro Spada. In ogni caso, i berlusconiani ci vanno molto piano sulle elezioni immediate: “Sono un rischio, la Liguria lo insegna”, ammonisce il coordinatore lombardo Alessandro Sorte su Repubblica, memore della sconfitta di Andrea Orlando contro Marco Bucci, subito dopo l’inchiesta su Giovanni Toti. Meglio allora far passare la buriana. Magari, dicono, si calmerà pure La Russa.









