(Stefano Iannaccone – editorialedomani.it) – Slitta tutto Rinviata anche l’ennesima revisione voluta dal ministro Tommaso Foti. È stato il moloch della politica negli ultimi anni. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, noto con il cacofonico acronimo Pnrr, avrebbe dovuto rivoluzionare la sanità, cambiare il look delle infrastrutture e accelerare la digitalizzazione, dalla giustizia allo sviluppo, con la stella polare della svolta green. E con il macro-obiettivo di riavvicinare il Mezzogiorno al resto del paese.
A un anno dalla scadenza, resta un elenco di buone intenzioni. I dati ufficiali sono sempre pochi e parziali. Quelli dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) riportano comunque di una spesa sul potenziamento del sistema sanitario nazionale inferiore a tre miliardi di euro a dispetto dei 15,6 miliardi a disposizione, mentre sulle infrastrutture – in base alla relazione del governo –il ministero di Matteo Salvini aveva speso, fino a sei mesi fa, circa un terzo degli stanziamenti.
Maluccio, certo. Ma meglio rispetto agli investimenti per ridurre il digital divide, affidati al sottosegretario all’Innovazione, Alessio Butti.
Cantieri fantasma
A certificare l’affanno è un’analisi dell’associazione Federcepicostruzioni, che ha citato uno studio di Banca d’Italia e Ance, l’associazione dei costruttori: fino all’inizio della primavera il 40 per cento dei cantieri è segnalato in ritardo.
Le cause sono varie: poco personale amministrativo, autorizzazioni concesse a rilento e soprattutto rincari delle materie prime. Una sorta di conferma è arrivata in maniera indiretta da una recente assemblea Ance: il 60 per cento delle opere è in corso di lavorazione (senza specificare se in tempo) o concluso. Quindi quattro su dieci no.
Il governo vuole mettere una toppa e dirottare molti fondi verso altre destinazioni, ristorando i danni arrecati dalla guerra commerciale dichiarata da Donald Trump o sostenendo i sovrapprezzi dell’energia.
Il Pnrr ha attraversato tre governi, due legislature, e visto due diversi ministri, Fitto – appunto – e il suo erede Tommaso Foti. Ma con lo stesso risultato. Ora scorge all’orizzonte l’ultimo chilometro, ossia l’ultimo anno. Salvo proroghe la deadline è fissata a giugno 2026. Altrimenti le risorse non impiegate faranno ritorno al mittente.
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, perora la causa della dilazione delle scadenze. Uno dei nodi è che non esiste neppure una cartina di tornasole sullo stato di attuazione. Secondo stime del database Edilconnect, un 20 per cento dei cantieri potrebbe non essere stata registrata ufficialmente. La mano destra non sa cosa fa la sinistra.
La mitologica “messa a terra del Pnrr” resta una nebulosa allo stato gassoso, con tanti saluti alla trasparenza. Appena qualche mese fa l’associazione Openpolis ha denunciato «la perdurante scarsa trasparenza che ha accompagnato e continua in buona misura ad accompagnare l’attuazione del Pnrr».
Il Piano rappresenta sempre una miniera d’oro, 194 miliardi di euro da mettere su ogni capitolo di spesa.
Pil fiacco
Eppure l’economia del resto se n’è accorta poco. Prodotto interno lordo alla mano non c’è stato alcun miracolo italiano. Nel 2024 la crescita è stata asfittica, dello 0,7 per cento, nel 2025 (secondo l’ultima previsione Istat) dovrebbe andare pure peggio, fermandosi al +0,6 per cento. Stesso discorso vale per la produzione industriale: dopo due anni di calo, solo ad aprile si è registrata una lieve inversione di tendenza (+0,3 per cento su base annua).
Certo, non c’è la controprova di come sarebbe andata senza il Piano. Fatto sta che “ritardo” è la parola che più riecheggia tra gli attori interessati.
Il cortocircuito è in alcuni casi clamoroso. Addirittura, l’ultima revisione da inviare alla Commissione europea è slittata. Era attesa per fine giugno se ne parla nella prima metà di luglio.
Un ritardo anche sulla strategia per evitare i ritardi. Le situazioni grottesche abbondano. I soldi per gli asili nido ci sono, 800 milioni di euro per un bando pure prorogato. Ma a fine aprile solo il 50 per cento è stato richiesto, l’altra quota dovrebbe finire all’edilizia scolastica. Il tempo stringe, bisogna capire come spendere quei soldi.
Controlli deludenti
Alcuni elementi sembrano quasi di folklore e aiutano a rendere l’idea della situazione. L’apposita unità di missione del Pnrr, istituita a palazzo Chigi, alla fine del 2024 aveva speso meno del 20 per cento del miliardo e 700 milioni di euro in dotazione. Ancora più seria la situazione al ministero del Lavoro, affidato a Marina Elvira Calderone, che sulla spesa sostenuta va a rilento con un dato inferiore al 10 per cento secondo l’ultima relazione ufficiale del governo.
Da qui la deriva la preoccupazione, espressa di recente dall’Anac, per l’incremento degli affidamenti non concorrenziali, nella soglia tra 135 e 140mila euro, «più che triplicati rispetto al 2021, quando il valore-limite era di 75mila euro», ha sottolineato il presidente dell’Autorità, Giuseppe Busia.
La pietra angolare resta la sanità, visto che il Next generation Eu è nato in risposta al Covid.
Di recente, sempre la Corte dei conti, ha denunciato la vergogna delle liste d’attese che restano infinite, con buona pace del Pnrr. E qui vengono in soccorso alcuni dati forniti dall’Ufficio parlamentare di bilancio in un dossier pubblicato a maggio.
«Il Pnrr prevede un vincolo di destinazione delle risorse al Mezzogiorno, ma la revisione verso il basso dei target sugli interventi edilizi e la mancanza di nuovi obiettivi regionali coerenti con la revisione potrebbe non garantire il previsto riequilibrio infrastrutturale anche se i traguardi europei fossero rispettati», osservano i tecnici dell’Upb.
Con un esempio: «Per le Case della comunità (Cdc) e per gli Ospedali di comunità (Odc) la presenza di cantieri in fase esecutiva o conclusiva non è omogenea sul territorio».
Accentramento
Un grande caos per la burocrazia, dietro cui si intravede la longa manus del governo, famelica di potere. Ma inadatta guidare i processi. Meloni ha gestito il Pnrr con la visione politica dell’accentramento.
L’allora ministro del Pnrr Fitto ha voluto portare sotto il controllo personale tutte le operazioni con l’apposita struttura di missione e l’ispettorato presso la ragioneria dello stato. Una manovra laboriosa, che ha contribuito ad accumulare i ritardi.
Per definizione la nascita di nuovi organismi richiede tempo e una fase di assestamento nel frattempo si rimette in moto l’apparato. Poco male. Fitto ha acquisito centralità, diventando il pivot del Pnrr che già arrancava.
La figura essenziale, almeno fino a quando non ha spiccato il volo verso i cieli di Bruxelles, diventando vicepresidente della commissione europea. I problemi sono stati trasferiti in toto al suo erede Foti. Un passaggio di consegne che ha ulteriormente frenato l’attuazione del Pnrr.
Il risultato? Ancora oggi si prospetta l’ennesimo decreto per le misure previste dal Piano. Prima della fine dell’estate, a fine luglio-inizio agosto (al più tardi alla ripresa di settembre), il governo varerà un altro provvedimento per centrare le richieste di semplificazioni burocratiche previste.
Il ministro della Funzione pubblica, Paolo Zangrillo, ha annunciato l’intervento nell’audizione parlamentare tenuta in settimana. Non una novità. L’esecutivo di Meloni ha prodotto un’enorme mole di provvedimenti limitandosi a elogiare il rispetto dei target e delle milestone previste.
Spesso si tratta infatti di misure spot. Basti pensare ai due disegni di legge sulla concorrenza, effettivamente licenziati dal consiglio dei ministri, per raggiungere gli obiettivi numerici. Ma senza un vero impatto sulla liberalizzazione dei mercati. Mirabile fotografia dell’insostenibile leggerezza del Pnrr.