‘Ndrangheta a Roma. «Qua ora c’è la squadra che ci combatteva a Sinopoli»

Avevano il terrore degli odiati sbirri. Di chi li aveva già indagati a Reggio Calabria, e che adesso occupavano le postazioni nevralgiche dell’Antimafia a Roma: il capo della Procura Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Michele Prestipino ed il dirigente della Squadra Mobile, Renato Cortese. Non si davano pace boss ed emergenti della ’ndrina Alvaro, la cellula romana della potentissima famiglia di Sinopoli e Cosoleto decapitata martedì dalla doppia retata “Propaggine” con 77 arresti sull’asse Calabria-Lazio.
Gli indagati sapevano che dopo l’esperienza a Reggio si erano trasferiti in blocco nella Capitale. Li conoscevano e li temevano come emerge dai commenti degli indagati intercettati dai segugi della Dia. Il tema è posto in evidenza dal Gip che ha firmato il filone d’inchiesta romano: «Poco dopo Carzo Antonio aggiungeva che il rischio era anche maggiore a Roma, dove erano stati trasferiti una serie di magistrati e di ufficiali di P.G. che avevano lavorato in Calabria e avevano combattuto a Sinopoli e Cosoleto contro gli Alvaro (“tutta la famiglia nostra”)». L’intercettazione è inequivocabile: “Antonio:… comunque c’è una Procura… qui a Roma… era tutta la squadra che era sotto là in Calabria… Orlando: Pignatone è?? Antonio: Pignatone… Cortese… Domenico: Prestipino… Antonio: sono tutti qua… Orlando: tutti qua sono… Antonio: e questi erano quelli che combattevamo dentro i paesi nostri… Cosoleto… Sinopoli… tutta la famiglia nostra… Maledetti…”.

Tra chi non dormiva sonni tranquilli anche uno dei presunti capi, Antonio Carzo. Per gli inquirenti è lui a dettare la linea operativa, disponendo di agire con cautela ma proseguendo nel programma criminale: “Sin da settembre 2017 proprio il timore di Antonio Carzo di essere di nuovo arrestato e di finire al 41 bis… aveva dato luogo, come espressamente riferito dallo stesso a ragionamenti per attivare i programmi criminali associativi di cui alla Locale con estrema attenzione specificando che “le cose si fanno” o meglio che non ci sarebbe stata nessuna interruzione del programma criminale, come meglio sappiamo ora”. L’ordine era quello di evitare riunioni e summit. “Questa estrema prudenza si incentrava nell’evitare riunioni tra i capi, come per esempio con Alvaro Vincenzo o con i 100 ‘ndranghetisti che vivono nel Lazio. Ritenendo che il fatto di non incontrarsi direttamente fosse sufficiente ad evitare la contestazione dell’associazione mafiosa…