In tutto sono 17 gli indagati della maxi-inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Torino che ha scoperto gli interessi della ‘ndrangheta nella gestione del bar del Palazzo di Giustizia, assegnato dal Comune di Torino alla cooperativa LiberaMensa, che dava lavoro a detenuti ed ex detenuti, fino alla retata del luglio 2023. La stessa cooperativa ha gestito anche il bar del carcere delle Vallette fino alla sua capitolazione avvenuta nel periodo post-covid.
A inizio dicembre 2023 i pubblici ministeri Paolo Toso e Francesco Pelosi hanno notificato l’avviso di conclusione indagini, tra gli altri, a Rocco Pronestì, Crescenzo D’Alterio (considerato uomo di Pronestì), Rocco Cambrea e Silvana Perrone. Il primo è uno storico appartenente alla criminalità organizzata del Piemonte e da anni legato ai maggiori esponenti della ‘ndrangheta locale. Sempre sfuggito alla condanna per associazione mafiosa, ha precedenti per reati in materia di armi e traffico di stupefacenti. In concorso con Cambrea (considerato “contiguo alla ‘ndrangheta”) è accusato di usura ed estorsione, ma anche di aver organizzato una bisca clandestina nel bar di via Postumia nel quale si occupava di gioco d’azzardo a metà degli anni ’90, prima di essere condannato nel procedimento denominato Cartagine.
Deve rispondere di associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori, invece, Silvana Perrone, ex presidente del cda di LiberaMensa: subentrata nella compagine societaria quando la coop era in pre-dissesto, a settembre 2020 avrebbe concertato con D’Alterio il subentro di due prestanome in qualità di presidente e vice-presidente del consiglio d’amministrazione. I quali, si legge nell’avviso di conclusione indagini, “si prestavano a comparire come titolari dei beni di Cambrea e Pronestì per evitare che questi venissero sottoposti a misura di prevenzione patrimoniale”. In questo modo tutti e sette, in concorso tra loro, “attribuivano la disponibilità dei beni e dei mezzi aziendali della cooperativa predetta e della titolarità del servizio pubblico di ristorazione affidato dal Comune di Torino, ad essa assegnato per anni 12” a Pronestì, Cambrea e D’Alterio. In seguito, secondo gli inquirenti, D’Alterio sarebbe rimasto “il regista occulto” e avrebbe usato la coop per offrire lavoro a persone vicine alle ‘ndrine, all’occorrenza.
Il loro, nell’ipotesi investigativa, era un controllo talmente saldo da far dire a Pronestì, intercettato: “È società nostra”. Quando il 18 luglio scorso i carabinieri e gli uomini della Dia avevano eseguito le prime misure cautelari, il nome di Perrone non figurava tra gli indagati, ma ricorreva nelle carte degli inquirenti. Il suo operato tuttavia sarebbe stato vano senza l’intervento di un professionista compiacente, un commercialista con studio in via Carle, che la procura accusa degli stessi reati: “Predisponeva le pratiche necessarie” al subentro, fornendo consulenze fiscali e servizi annessi.
Nelle carte si parla di appalti e colletti bianchi, ma anche di prestiti a usura ed estorsioni messe a segno con i metodi classici come minacce, pressioni e intimidazioni. Il modus operandi era il seguente: “Mediante intestazione fittizia di società e imprese artigiane, in modo diretto e indiretto, attraverso servizi di protezione e recupero crediti, acquisire il controllo di attività economiche nel settore della ristorazione e del commercio, oltre ad appalti di servizi e con enti pubblici”.