‘Ndrangheta in Emilia: il clan Grande Aracri, Gomorra e la “sindrome di Grimilde”

C’è qualche perplessità, si fa un po’ fatica da addetti ai lavori a capire come, in un’area come questa dell’Emilia-Romagna dove c’è un grande senso civico e una diffusa cultura della legalità, queste cose non si riescano a superare. Per questo abbiamo chiamato l’operazione ‘Grimilde’, con riferimento alla sindrome di Grimilde che non ammette le sue imperfezioni e non si guarda allo specchio“. Così aveva parlato il 24 giugno del 2019 a Bologna il responsabile della Direzione centrale anticrimine (Dac) della Polizia Francesco Messina nella conferenza stampa seguita agli arresti della Dda che avevano inferto un altro duro colpo al clan dei Grande Aracri, del quale faceva parte anche il presidente del consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso.

In primo grado, a ottobre 2020, il processo si era concluso con 41 condanne per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato, le più alte a 20 anni per l’ex presidente del Consiglio comunale di Piacenza Giuseppe Caruso e per Salvatore Grande Aracri, figlio del boss Francesco e nipote di Nicolino. Altri 27 imputati sono invece attualmente a dibattimento a Reggio Emilia e tra questi Francesco Grande Aracri e l’altro figlio, Paolo.
Per Caruso, ex FdI ed ex funzionario delle dogane, ruolo col quale avrebbe aiutato la cosca, La pubblica accusa, in Apppello, è stata rappresentata da Lucia Musti, procuratrice generale reggente e da Beatrice Ronchi, pm della Dda che ha coordinato le indagini e ha seguito anche il primo grado del processo.

A Brescello, il paese di Peppone e Don Camillo in provincia di Reggio-Emilia, la ‘ndrangheta dettava legge. E lo faceva, sotto l’egida della famiglia Grande Aracri, come struttura autonoma dalla Calabria, potendo contare su importanti radicamenti in tutta la provincia reggiana. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione il 2 luglio scorso, chiudendo il processo “Grimilde” e confermando, tra le altre, anche la condanna ad oltre 12 anni di carcere per Giuseppe Caruso (Fdi), ex presidente del Consiglio comunale di Piacenza e funzionario delle Dogane, finito in manette nel 2019.

Il bilancio della pronuncia della Cassazione, che ha riconosciuto la bontà dell’impianto accusatorio del procedimento contro la ‘ndrangheta in Emilia-Romagna e ha impresso il primo marchio sul procedimento di rito abbreviato nato dall’inchiesta, è impietoso per gli ‘ndranghetisti coinvolti, che si erano installati in pianta stabile nella regione. Diciotto condanne sono divenute definitive, mentre sei imputati dovranno subire un nuovo processo d’Appello. Coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, “Grimilde” era nata da un’operazione effettuata il 25 giugno 2019, con 16 arresti eseguiti dalla Polizia ai danni degli uomini della cellula dei Grande Aracri, attiva nei territori di Brescello, Parma e Piacenza.

Per il 43enne Salvatore Grande Aracri – detto ‘Calamaro’ -, nipote del boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, i giudici hanno confermato l’accusa di associazione mafiosa. Aveva preso 20 anni in primo grado, poi in Appello la pena era stata alleggerita a 14 anni e 4 mesi di reclusione. Accogliendo il ricorso della Procura generale riguardante tre imputazioni, per lui la Cassazione ha disposto un nuovo giudizio di secondo grado. La stessa sorte toccherà ai fratelli Antonio e Cesare Muto di Gualtieri (Reggio Emilia), che nell’ottobre del 2022 avevano subito un maxi-sequestro da oltre 10 milioni di euro. Il padre e il fratello di Salvatore Grande Aracri, Francesco e Paolo, sono alla sbarra nel rito ordinario di “Grimilde”: 6 mesi fa si sono visti comminare, rispettivamente, 19 anni e sei mesi e 12 anni di carcere

Un capitolo importante del processo è quello riferito alla posizione dell’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza ed ex funzionario dell’Agenzia delle Dogane, Giuseppe Caruso, che si è visto confermare una pena a 12 anni e 2 mesi di galera: 8 anni e 2 mesi per mafia – è stata ufficialmente attestata la sua appartenenza alla cosca dei Grande Aracri -, più 4 anni per un’ulteriore truffa all’Agea. L’uomo sarà inoltre tenuto a risarcire il comune di Piacenza con un milione di euro. Ai tempi, Caruso era membro di Fratelli D’Italia, ma il partito provvide subito ad espellerlo. Il difensore di Giuseppe Caruso, l’avvocato Luca Cianferoni, si è detto amareggiato per la sentenza, affermando che dopo il deposito delle motivazioni valuterà un ricorso alla Corte europea. Nel medesimo processo è stato condannato anche suo fratello, Albino Caruso, che dovrà scontare sei anni e dieci mesi di carcere per associazione mafiosa.

Con “Grimilde” si perviene alla piena conferma della pervasività con cui la ‘ndrangheta si è insediata nel contesto politico, economico e sociale dell’Emilia-Romagna, già descritta in maniera perentoria negli scorsi anni dalle risultanze giudiziarie del Maxiprocesso Aemilia, in cui piovvero ingenti condanne e si comprovò l’“articolato e differenziato programma associativo” di un’organizzazione dotata di propri uomini e mezzi, autonoma rispetto alla “cosca madre” calabrese.

Soddisfatta la procuratrice generale reggente di Bologna, Lucia Musti, secondo cui «giova evidenziare che, ancora una volta, con sentenza definitiva, è stata ribadita, con la conferma del delitto di associazione di stampo mafioso, l’esistenza e l’operatività nel Distretto del Emilia-Romagna di una struttura autonoma di ‘ndrangheta, facente capo alla famiglia Grande Aracri di Brescello» e che, «tra gli esponenti del sodalizio ‘ndranghetistico emiliano è stato riconosciuto Giuseppe Caruso, ex funzionario dell’Agenzia delle Dogane di Piacenza ed ex presidente del Consiglio comunale di Piacenza». Musti ha aggiunto che «è stato riconosciuto un complesso reato di truffa con ingente danno nei confronti dello Stato, il cosiddetto affare ‘Oppido’, corale espressione della consorteria mafiosa, nonché condotte di caporalato, poste in essere in Italia e all’estero». Ora gli occhi sono puntati sul rito ordinario, per il completamento del complesso puzzle processuale.

Grimilde – per chi non lo sapesse – è la strega della favola di Biancaneve: alcune donne che non si piacciono (spesso anche per piccole imperfezioni del loro corpo) non si guardano allo specchio, per non essere messe di fronte alla realtà. E tutto questo dà vita ad una vera e propria sindrome. La metafora è stata tirata fuori recentemente e con grande successo dall’ex procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti insieme al giornalista di Repubblica Giuliano Foschini nel libro “Il contrario della paura” scritto per la collana “Strade Blu” di Mondadori (176 pagine).

C’è un alfabeto per comprendere la vita italiana degli ultimi cinquant’anni. Si tratta di una lezione per entrare nella storia del nostro paese mediante l’analisi del fenomeno criminale, essenzialmente mafioso, ma oggi anche terroristico. Roberti spiega non solo i dispositivi con cui agiscono la mafia e il terrorismo islamico dei mesi recenti (peraltro con insospettabili punti di contatto), ma soprattutto le ragioni per le quali si generano le esperienze più violente e illegali che intrecciano il potere costituito e si manifestano a loro volta come espressioni di potere.

Franco Roberti

Su tutte le concause che alimentano mafia e terrorismo, esiste una comune origine nelle diseguaglianze sociali, negli interstizi delle quali nascono povertà, ignoranza e violenza. L’autore ricorda le parole del colonnello Anceschi che chiosarono un trionfalistico discorso di Mussolini per aver debellato nel 1926 con arresti, pene e condanne esemplari, la camorra dei Mazzoni in Terra di Lavoro: “… bisogna costruire strade, scuole, una rete idrica, dare occupazione alla gente, perché sennò il fenomeno si riprodurrà”. Parole di scottante attualità a quasi un secolo di distanza.

La tesi di fondo del libro è che le mafie non sono una realtà da fronteggiare solo in termini repressivi, ma soprattutto con politiche di prevenzione a tutti i livelli. Per questo si parla della necessità di nuovi “maestri della cultura dei diritti” e non è un caso che, pescando nel passato per additare esempi di questo genere, Franco Roberti riproponga una lettera di Giuseppe Di Vittorio, fondatore della Cgil, che resistette alla corruzione restituendo al mittente l’omaggio di un cesto natalizio inviatogli dal latifondista Conte Pavoncelli: “Non basta l’intima coscienza della propria onestà. Serve anche l’onestá esteriore”. Non è un caso, dicevamo, questa citazione del padre delle lotte dei lavoratori: solo il lavoro può eradicare la mafia.

Nel libro si rivela tutta la competenza specialistica del procuratore che parla un linguaggio semplice ed efficace, che arriva a tutti: la mafia è un delitto contro la democrazia, è un fenomeno di relazione, esiste in quanto esiste il suo rapporto con le istituzioni, in una logica parassitaria, vero freno dello sviluppo; la corruzione è un reato contro l’economia, altera la concorrenza e mette in difficoltà le aziende sane; per vincere il terrorismo islamico occorre una “deradicalizzazione” dei musulmani che vivono in Europa; il narcotraffico ha prodotto il riciclaggio di circa 9.200 miliardi di euro in vent’anni (quasi il pil della Cina nel 2013 e sei volte il pil italiano).

Roberti narra queste cose percorrendo la storia d’Italia e in particolare quella dagli anni ’70 ad oggi, svelando segreti (caso Cirillo) e aneddoti (dal rapporto personale di forte amicizia con Giovani Falcone, del quale racconta la prima telefonata, ai “faccia a faccia” con boss della camorra), spiegando le differenze fra Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta e mafia capitale, mostrando sempre un grande credo nel valore della Giustizia. C’è una frase, detta en passant, che rivela il carattere dell’autore sotto questo profilo: “Vivo sotto scorta”. Da trent’anni. È scritta senza enfasi, senza ostentazione, senza quel retropensiero di chi lo dice in uno per lamentarsi, farsi compatire e ammirare. È scritta con la coscienza del dovere punto e basta.

Ma l’invenzione letteraria di questo libro è la “Sindrome di Grimilde” alla quale è dedicato un intero capitolo dei ventuno che lo compongono. A ben guardare la Sindrome di Grimilde pervade tutto il volume nell’esigenza etico-sociale di “sgonfiare la bolla dell’omertà” di fronte a un certo tipo di criminalità alla quale, grazie alla “spendita della fama”, non serve sparare, ma basta esistere.

Si tratta di “uno strumento di difesa che però impedisce una risoluzione del problema: se non ti guardi, non sai. E se non sai, non puoi prendere le contromisure per apparire migliore”. Questa patologia si ritrova nella società italiana, dapprima solo al Sud ma adesso anche al Nord – se è vero, com’è vero, che adesso è stata rievocata per un’operazione anti ‘ndrangheta in Emilia, ed è un freno al contrasto alle mafie proprio perché impedisce di prendere vera coscienza della realtà.

È quello che è accaduto quando hanno dato addosso alla ex presidente della commissione antimafia Rosi Bindi la quale aveva aderito alla tesi, che Roberti sostiene da molto prima di quelle dichiarazioni, secondo cui “le mafie sono un elemento costitutivo, una componente endemica della società meridionale”. Ed è quello che è accaduto anche a proposito delle critiche alla fiction di Gomorra (definita da alcuni critici un “errore narrativo”) e che invece l’autore di questo libro difende: «È un altro pezzo della Sindrome di Grimilde: non vogliamo guardarci allo specchio? Gomorra fornisce un contributo di conoscenza reale del problema. E fa più paura proprio per questo”.

Se non si comprende la Sindrome di Grimilde non si capisce nemmeno il titolo dell’opera: qual è il contrario della paura? “Amo particolarmente – scrive Roberti – una frase di Albert Camus, che scrisse nei Taccuini: l’unica libertà per la quale sarei disposto a battermi veramente è la libertà di non mentire mai”. A Paolo Borsellino in una intervista televisiva chiesero quale fosse il contrario del coraggio ed egli rispose: non è la paura, ma la viltá. Per converso, Franco Roberti appare rispondere alla domanda reciproca su che cosa sia il contrario della paura: non il coraggio, ma la verità.

E in un’altra parte del libro si sofferma sui rapporti fra verità è fiducia quali elementi fondanti della comunità umana. L’ultima riga del suo libro, svelando l’enigma del titolo, trae fuori dall’intimo dell’autore l’imperativo di una vita, lo stesso imperativo a cui obbediva un giovane magistrato ai tempi del del post-terremoto in un piccolo tribunale irpino, lo stesso imperativo che ha guidato colui che ha sconfitto il Clan dei Casalesi, lo stesso imperativo scritto nel vecchio codice di procedura penale per il giudice istruttore e il pm: accertare la verità.