Il sostituto del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, ha lavorato a lungo in stretta sinergia con u magistrati di Reggio Calabria per disegnare i contorni del patt tra ‘ndrangheta e mafia per attaccare lo stato.
Francesco Curcio ha lavorato in stretta sinergia con il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e soprattutto con l’aggiunto Giuseppe Lombardo assieme al quale hanno riascoltato quasi un centinaio di collaboratori di giustizia, intrecciato decine di filoni d’inchieste e trovato riscontri a vicende fino ad oggi avvolte nel mistero.
A partire dall’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e al ruolo che, nella strategia stragista, ha avuto la ‘ndrangheta. Un ruolo tutt’altro che marginale e che sembra aver portato gli inquirenti a dimostrare il coinvolgimento di boss reggini nell’escalation di azioni criminali in cui rientrò anche il progetto di attentato allo stadio Olimpico che doveva essere compiuto il 23 gennaio 1994.
Un’unica strategia, infatti, decisa dai boss siciliani che seguivano l’opera di Salvatore Riina e dalle principali cosche della provincia di Reggio Calabria come i Piromalli. Una sorta di commissione ristretta che sullo sfondo, con una posizione più defilata, ha visto pure la cosca De Stefano.
In manette è finitoi Rocco Santo Filippone, di 77 anni, boss di Melicucco conosciuto con il soprannome di “Zio Rocco”. Esponente di rilievo della cosca Piromalli di Gioia Tauro, il pentito Consolato Villani lo definisce un “sicuro garante e un affidabile intermediario”. In una relazione del 1997 del commissariato di Polistena, Filippone viene descritto come un “pericolosissimo pregiudicato e mafioso con influenza determinante delle sue attività illecite e criminose sui comuni di Anoia e Melicucco.
Si rappresenta che “… il predetto si è inserito ben presto in seno alla malavita organizzata del luogo grazie alle sue qualità di uomo d’onore, conquistando subito la simpatia e la fiducia del capo del clan mafioso Longo Luigi, deceduto, sotto la protezione e la guida del quale è riuscito a raggiungere un posto di assoluto rispetto nell’ambito dell’organizzazione mafiosa”.
Un posto che gli ha consentito oggi di vedere il suo nome al fianco di quello di un altro boss siciliano, il cui nome è stato citato più volte in relazione all’oscura stagione delle bombe. La seconda ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta della Dda, infatti, è stata notificata in carcere a Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio già detenuto al 41 bis, e indagato da qualche mese dalla procura di Palermo per la trattativa stato-mafia dopo le sue intercettazioni in carcere.
Calabresi e siciliani hanno dettato la linea di quella “guerra allo Stato” forse iniziata con l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti che avrebbe dovuto rappresentare, in Cassazione, l’accusa nel maxi-processo a Cosa Nostra. Sul delitto, consumato nel 1991 a Campo Calabro, le indagini sono ancora in corso e non rientrano nell’operazione di oggi. Tuttavia il contesto è lo stesso.
Il racconto dei pentiti e gli incontri – Nel fascicolo dell’inchiesta ci sono i verbali di numerosi pentiti, tra cui Nino Fiume che parla di favori della ‘ndrangheta a Cosa nostra: “Era stata una cortesia chiesta. – sono le sue parole pronunciate qualche anno fa in aula bunker a Reggio – Cosa Nostra cercava alleati in Calabria per coinvolgere la ‘ndrangheta in quella che sarà definita la stagione stragista. A detta di Giuseppe De Stefano, a sparare sono stati due calabresi”. Proprio nell’ambito di queste “cortesie”, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e il sostituto della Dna Francesco Curcio hanno disegnato il perimetro del rapporto tra esponenti di Cosa nostra e ‘ndranghetisti che si muovevano lungo l’asse Reggio-Gioia Tauro.
Ex killer della cosca De Stefano e un tempo cognato del boss, infatti, Fiume racconta in un memoriale le dinamiche interne della famiglia di Archi, di quei mafiosi “dalle scarpe lucide” capaci di trattare alla pari con Riina e i corleonesi. Fiume è stato testimone oculare degli incontri tra i palermitani e i calabresi.
Tre in tutto: una volta a Milano e due in Calabria, a Rosarno presso l’hotel Vittoria e a Parghelia, all’interno del residence Blue Paradise. Summit nei quali sembrava che le cosche reggine avessero declinato l’invito di Cosa Nostra a partecipare alle stragi che dovevano servire a piegare lo Stato. Il ‘no’ dei reggini, però, era di facciata. In realtà era un “sì” mascherato da una sorta di pacca sulla spalla come per dire: “Andate avanti, noi ci siamo”.
La sensazione, adesso, è che vacillano le fondamenta di un sistema, compromesso in tutte le sue componenti: ‘ndrangheta, massoneria, politica, servizi segreti e interi pezzi delle istituzioni. Le armi dei De Stefano e dei Piromalli, infatti, non sono solo quelle che hanno macchiato la Calabria che tra il 1985 e il 1991 vide quasi mille morti ammazzati nella sola Reggio. Piuttosto quelle che hanno insanguinato l’Italia. Stragi e omicidi di Stato i cui segreti, in parte, sono custoditi in riva allo Stretto.
Lucio Musolino
Fonte: Il Fatto Quotidiano