Novanta minuti di libertà, appunti da un campo di calcio: detenuti VS Morrone

Novanta minuti di libertà. Senza barriere né limiti, se non quelli di un campo di calcio. Emozioni speciali, di quelle che rimangono impresse per sempre: come un tatuaggio marchiato a fuoco sulla pelle, sensazioni così forti che viene difficile riviverle in tutto il suo insieme. Esattamente quanto provato dai giocatori dell’ A. C. Morrone, che ieri ha affrontato in un match amichevole una formazione composta dai detenuti della Casa Circondariale di Cosenza. Ecco il racconto vissuto da uno dei ‘protagonisti’:

Il Signore vale per Tutti!” questa è la frase di rito che gli arbitri pronunciano negli spogliatoi prima di fare l’appello dei giocatori convocati, nei minuti precedenti l’entrata in campo. Involontariamente, e senza motivo, penso a questo rituale mentre mi dirigo all’appuntamento. I ragazzi dell’A.C. Morrone restano radunati davanti al campo. Sguardi di finta normalità che nascondono una sorta di imbarazzo/timore nel dover, da lì a poco, varcare la soglia di un penitenziario. La partita contro i detenuti è stata organizzata mesi prima, la prassi burocratica ha fatto trascorrere un po’ di tempo.

Siamo lì, ad aspettare le 14.30. Ora d’entrata. Il campo dell’A.C. Morrone dista solo qualche metro dalle mura del penitenziario. E nessuno, ci fa caso. Durante la settimana, si parcheggia proprio a ridosso delle mura. Poi, si voltano le spalle e si entra in campo. Quasi come se quella struttura fosse un comune palazzo del quartiere. Ma oggi no! Quelle stesse mura, ci ospiteranno per una partita. I giocatori già in divisa da gioco, l’allenatore, i dirigenti accompagnatori, ed io, responsabile della comunicazione della squadra. Uno dei dirigenti varca la soglia tra la libertà e la prigionia, tutti noi seguiamo. Entrati.

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Siamo tutti in fila in un corridoio stretto, dietro di noi, una porta blindata automatica si è chiusa. Il rumore, spavaldo, deciso e assordante della sua chiusura, ha arrestato anche le nostre parole. Oltre i vetri blindati, una poliziotta penitenziaria chiama i nostri cognomi. Uno per uno, andiamo davanti a lei – oltre i vetri – lasciamo un documento d’identità e firmiamo. E dopo aver depositato i nostri oggetti personali in una cassetta di sicurezza, uno per volta passiamo la cabina del metaldetector. Abbiamo varcato il confine, e tutti, nessuno escluso, ci siamo ritrovati all’interno delle mura. Siamo su un campo da gioco!  I nostri avversari non sono ancora arrivati. Passa poco, li vediamo avvicinarsi. Persone di diverse età (dai trenta ai sessanta), capiamo subito che qualcosa rompe gli schemi, gli stereotipi, i pregiudizi. Ognuno di loro possiede alcunché, che forse, nessuno di noi si aspettava. I “cattivi” possiedono il sorriso! Entrano in campo e sorridenti, ci vengono incontro, ognuno di loro si presenta stringendoci la mano e dicendo “Grazie!”

A questo punto, noto una cosa. Uno dei detenuti giunto di fronte un nostro giocatore, resta in silenzio. Restano entrambi in silenzio. Come se fosse successo qualcosa. Si guardano negli occhi, mentre si stringono la mano. Poi, parte un sorriso silenzio da parte di entrambi. Uno di quei sorrisi destinato a valere più di ogni altro dialogo. Entrambi vengono dallo stesso quartiere. Ci sono oltre vent’anni di età che li separa. Ma quel detenuto ricorda il nostro giocatore da bambino, quando tutti quei “Guagliuniaddri” giocavano per strada. Quando si giocava in un quartiere “…dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi..” e dove una partita veniva scommessa per una Coca-Cola in palio. Alla fine, succedeva che partivano discussioni, litigi e la Coca-Cola non venne mai vinta da nessuno. L’indomani restava sempre lì, pronta ad essere nuovamente messa in palio. Tra loro c’è stato solo questo sguardo, nulla più. Nessun legame di parentela, solo un unico legame: lo stesso quartiere.

La partita inizia. Noi e loro, ragazzini di strada. Non ci sono più recinti, ma solo della terra battuta da condividere. In palio, una Coca-Cola da vincere. Si avvicina a noi, in panchina, un signore sui cinquanta. Aspetta il cambio per entrare e giocare. Indossa una tuta del Napoli, ci dice che fra qualche mese, dopo oltre un decennio, sarà nuovamente libero. Ci racconta dei suoi sbagli. Parla con noi. Con la voglia di chi vuole condividere le proprie scelte, i propri errori. Con orgoglio ci parla di sua figlia che si è laureata. Con amarezza del fatto che in quel giorno, così importante, lui non c’era. Dice che uscirà, e sarà dura, ma vorrà godersi quel che resta.

Il fischio della fine arriva. Tutti sono sudati, e tutti, condividono lo stesso sudore abbracciandosi. I giocatori ridono, i detenuti altrettanto. Hanno condiviso lo stesso terreno di gioco per novanta minuti. Ora non ci sono più pregiudizi, ma solo strette di mani e abbracci. Tutti, ci ringraziamo, con un’innocenza smarrita. Avevamo lasciato i cellulari nella cassetta di sicurezza, niente ci ha distratto, siamo rimasti per novanta minuti con lo sguardo alzato. E dopo quel tempo trascorso, abbiamo lasciato pregiudizi, buonismo e tutto il resto al di fuori delle mura. Abbiamo portato solo noi stessi.

Il cancello del campo si apre, detenuti e calciatori escono fuori. Usciamo tutti. Ci riguardiamo, sorvegliati dai poliziotti. Un’ultima stretta di mano, un’ultima battuta, un ultimo grazie. E poi vanno via, rientrando nelle mura. Tutti restiamo in silenzio. Usciamo fuori. Riprendiamo le nostre vite contenute nella cassetta di sicurezza. Qualche chiamata persa, qualche sms, qualche notifica Facebook accumulata sul telefono durante quei novanta minuti. Ora siamo nuovamente fuori, liberi. In silenzio, ripercorriamo quei pochi metri dal penitenziario verso il campo. Il sole è tramontato, e in quel quartiere, ancora una volta, nessuna ha vinto la Coca-Cola in palio.

Racconto a cura di Davide Imbrogno – Resposanbile Comunicazione A.C. Morrone