O mia bela Madunina: perché il “sistema Milano” è in realtà un problema antropologico

(Francesco Marabotti – lafionda.org) – Oggi a Milano una stanza decente non costa meno di 650-700 euro, nelle zone vicino all’università, e il costo della vita è fra i più alti in Italia. È una città dove il consumo di cocaina è il doppio della media nazionale, e dove la voracità predatoria dell’urbanistica, come scrive la Procura, ha ridotto ulteriormente le aree verdi.

Ma facciamo un passo indietro. Mi ricordo dal 2015 circa al 2018, gli ultimi anni in cui ho frequentato la Statale di Milano, che tutto il cortile interno veniva affittato per la settimana del Design e riempito di ‘opere’ che esprimevano alla perfezione tutto il glamour, la nullità e il carattere nichilistico-mercantile del modello meneghino attuale.

Una folla, che mi stupiva ogni anno, di turisti, di milanesi, di esperti di design e architettura, veniva a rendere la Statale di Milano una fantasmagoria che colonizzava le menti e l’immaginario.

Come scrive Lucia Tozzi, studiosa di politiche urbane: “Solo dieci anni fa Milano era vista come una città produttiva, elegante, ma grigia. Poi, con l’Expo2015, ha assunto l’immagine di una metropoli splendente e attrattiva. Il passaggio però non è la conseguenza di una trasformazione oggettiva ma, all’opposto, è la metamorfosi fisica a essere effetto di una campagna di marketing senza precedenti, il cui successo è stato ottenuto spostando le risorse materiali e intellettuali destinate alla produzione di cultura, ricerca, servizi di welfare verso la produzione dell’immagine di una metropoli globale del lusso. L’aspetto più perturbante dell’intero processo è il ruolo giocato dalla finanza, impegnata in una doppia missione: concentrazione della ricchezza attraverso la privatizzazione della città pubblica, dei suoi spazi e delle sue istituzioni sociali e culturali; cattura o neutralizzazione delle forze che potrebbero produrre attrito nel sistema e lotta alle disuguaglianze”.

La città è la dimora del collettivo

Dunque il decennio dai venti ai trent’anni della mia vita è cresciuto dentro questa metamorfosi di Milano, la città della moda, della fashion week, delle discoteche in Corso Como, degli Influencer con decine di milioni di followers; la Milano dei Boschi Verticali e delle droghe orizzontali.

Una città che assieme all’attrattività, al trendy e al lusso, ha iniziato a produrre sempre più effetti desiderati, da chi ha voluto farne una metropoli stile Londra o New York, e cioè per ricchi, dove i miliardari possono spostare la residenza senza pagare le tasse, e gli studenti non possono prendere in affitto una stanza decente a meno di 700 euro.

Una città cioè dove per sopravvivere bisogna lavorare sempre di più e avere sempre di meno, perché Milano è anche un luogo che progressivamente è diventato sempre più gentrificato; dove l’urbanistica ha colonizzato sempre più le aree verdi, rendendo quindi non solo tante volte l’aria irrespirabile, ma anche il tessuto sociale sempre più disgregato e privo di realtà comunitarie.

Si sono create perciò per contrasto aree del ‘degrado’, come Rogoredo, dove il ritorno dell’eroina segna l’espressione di un malessere politico prima ancora che interiore.

O come Via Padova, e cioè di aree urbane sottratte al controllo dell’amministrazione, dove regna un popolo degli abissi e un sottosuolo che cresce aldilà dello schema prefissato.

In realtà questa metamorfosi di Milano è stata una operazione simile a quella di Haussmann nella Parigi del XX secolo. Allora si trattò di costruire grandi viali, i boulevard, per impedire il diffondersi delle barricate ai tempi delle rivoluzioni.

A Milano si è trattato della costruzione di un mito, un modello dei dominanti, di un potere neoliberale, tecno-finanziario, del marketing ubiquitario, di un consumismo pregiato, di una erosione progressiva della sostanza a favore di un’apparenza che attira i grandi capitali.

Si tratta di rendere impossibili delle barricate interiori, delle difese antropologiche e spirituali di fronte a questa metamorfosi.

Per questo è importante chiedersi: siamo diventati così anche noi? Questo sistema, questa mentalità che ci seduce, che ci convince a tratti a farci brand di noi stessi, e che se non riusciamo a sopravvivere in questo contesto è perché non siamo stati abbastanza forti e vincenti, ci è entrata dentro?

O mia bela Madunina: salva Milano!

Vorrei chiudere però con una nota di speranza, o forse di utopia, che però non è retorica, né tantomeno a buon mercato. La vera questione che emerge dalla degenerazione di questo modello urbanistico non è morale, e non solamente culturale.

È un problema antropologico. La domanda cioè è quale modalità di abitare collettivo vogliamo scegliere. Chi vogliamo essere?

E in questi anni ho conosciuto tante persone, magari spinte dal malessere lavorativo ed esistenziale, iniziare a rendersi conto che questo modello, aldilà di tutte le considerazioni possibili, non ci offre la possibilità di un’esistenza dignitosa e soprattutto non ci rende felici.

Questo sistema non ha niente a che fare con l’anima di Milano, che è sempre stata una città popolare, creativa, rivoluzionaria. La Milano che amo e porto nel cuore ha dato i natali a Cesare Beccaria e Alessandro Manzoni, che ha scritto probabilmente il romanzo più popolare italiano; è la Milano di Gaber e Jannacci, di Dario Fò e Celentano, di Cochi e Renato.

È la Milano di Alda Merini e di una comicità che nasce dal basso, dal freddo, capace però di farsi caldo, e motore di nuove idee.

Milano non è una città del Lusso, della finanza e degli influencer senz’anima. È una metropoli capace di coniugare il sentimento popolare con una virtù imprenditoriale trainante e visionaria.

Milano è una città che ha saputo fare della povertà e della sobrietà delle qualità umane funzionali alla laboriosità.

E credo che le nuove generazioni possano rendersi conto che tanti modelli e valori sono semplicemente delle trappole, e iniziare dei percorsi nuovi di socializzazione, di riscoperta della città, e fioritura di una creatività capace di lottare per un futuro migliore.

È arrivato il tempo di formare una nuova classe dirigente, che sia in grado, nei prossimi decenni, di sostituire questo sistema marcio, e dare vita ad una nuova città.