Come accade molto spesso nel nostro pessimo sistema di informazione, i familiari di chi subisce un’ingiustizia sono costretti a chiedere aiuto ai giornalisti di media nazionali. Perché qui da noi, soprattutto a Cosenza, non ti imbatti mai in cronisti che vogliano la verità. Qui da noi la normalità è nascondere la verità. E gli “specialisti” di Gazzette, Quotidiani, Calabrie Ore, Corrieri Calabri, Garantisti, Province di Cariati e compagnia bella lavorano tutti i giorni non solo per nascondercela ma per farcela vedere come piace a loro.
Oggi, nell’ambito della bella rubrica del Tg5 “L’indignato speciale”, curata da Andrea Pamparana, abbiamo scoperto che a Paola c’è stato un efferato omicidio per il quale i vari megafoni delle procure di Cosenza, Paola e Castrovillari (altrimenti definite “il triangolo delle Bermude”: chi ha a che fare con loro, non si trova più…) hanno vergognosamente taciuto, raccontando soltanto quello che conveniva a magistrati senza spina dorsale e completamente appecoronati alle logiche dei poteri forti.
Si tratta dell’omicidio di Pompeo Panaro, commerciante, ex dirigente provinciale della Dc cosentina, ucciso nel 1982 in circostanze mai veramente chiarite. A dire il vero, di Pompeo Panaro non si sono più avute notizie dal 28 luglio del 1982 e in molti hanno pensato, in quel periodo, alla famosa “lupara bianca”. In effetti, Panaro sembrava sparito nel nulla. Ma non era per niente così.
Il figlio Paolo, dopo aver verificato che le indagini ufficiali facevano acqua da tutte le parti, nel 2011 si decide ad indagare per conto suo, senza nessun tipo di aiuto da parte dei familiari, evidentemente preoccupati di possibili ritorsioni.
Lo abbiamo contattato dopo aver visto la rubrica di Pamparana e non ha avuto dubbi: “Pamparana e il suo staff sono stati onesti: hanno chiamato le cose col loro nome: uno scandalo giudiziario lungo 33 anni. Una vicenda etichettata come “lupara bianca”, quando invece non lo è mai stata, perché il cadavere di mio padre fu trovato UFFICIALMENTE nel 1983, un anno dopo la scomparsa, ma gli inquirenti tutti hanno volutamente omesso finora tutto questo…”.
Non è semplice ricapitolare correttamente tutto quello che è accaduto ma ci proviamo.
Paolo Panaro si rivolge alla polizia e poi alla magistratura e scopre che in archivio, alla procura di Paola, esiste un fascicolo. Lo acquisisce il 31 maggio 2011. Inizia una svolta che segnerà tutta la sua vita. E forse di un’intera stagione di morti e di scomparsi. Un cimitero delle cosche della ‘ndrangheta. È un atto che segna il punto di non ritorno verso l’arrivo finale: scoprire cosa è accaduto a suo padre.
Dagli scaffali impolverati del Tribunale di Paola recupera il fascicolo, basta una lettura all’intestazione per capire che si tratta di omicidio. “Sono rimasto di stucco”, dice adesso.
“Mi chiedevo cosa ci fosse dietro a quell’atteggiamento omertoso, ondivago dei miei stessi parenti. Nell’arco di 30 anni tutti avevano fatto passare per scomparsa e non per omicidio la fine di mio padre”, ragiona Paolo. “Un’assurdità”.
Paolo Panaro, una volta verificata la connivenza dei giornalisti locali con la “paranza” dello stato mafioso, si rivolge a Repubblica. E l’inchiesta giornalistica finalmente smuove qualcosa. Siamo a maggio del 2013.
Ecco cosa scriveva all’epoca Giovanni Tizian.
“… Negli anni della scomparsa accade qualcosa: in una zona montana vengono ritrovati dei resti umani. È il 12 giugno del 1983. Li scopre la polizia, in località “Trifoglio”, a pochi chilometri da Paola. Si tratta di un omero, l’unico osso rimasto di un corpo seppellito sotto un metro di terra. Il ritrovamento viene registrato e inserito in un fascicolo. Ci sono anche delle foto che immortalano il reperto. E qui il caso diventa un giallo. Le immagini, che sono la testimonianza visiva di quel ritrovamento, scompaiono dagli atti. Scompare anche l’anello con il rubino rosso, un oggetto personale che Pompeo Panaro portava sempre all’indice. Il giorno successivo gli scavi continuano. I detective trovano altri frammenti ossei. Appartengono a un cranio; sono carbonizzati. Da quel nuovo frammento sarebbe possibile ricavare l’impronta dentaria, elemento che porta facilmente all’identificazione del cadavere a cui apparteneva.
Le tracce e i reperti svaniscono nel nulla. Non vengono mai inseriti nel rapporto finale della polizia. Ma la storia, ormai un vero giallo, non finisce qui. Passano 10 giorni e i cani fiutano una chiave. Apre una porta ben precisa: quella di un magazzino di Pompeo. Gli elementi raccolti sono univoci. Portano dritti verso una direzione. La perizia è inevitabile e il corpo, attraverso i diversi frammenti ossei e la chiave che apre la porta di una proprietà di Panaro, viene ufficialmente riconosciuto. A quel punto si sarebbe dovuta mettere in moto la macchina burocratica per il seppellimento: l’invio del nulla osta all’anagrafe che certifica la morte di Pompeo. “Ma anche questo semplice atto amministrativo non avviene perché il documento rimane nel fascicolo”, ripete amareggiato il figlio. “Dopo il riconoscimento ufficiale nessuno ci ha comunicato l’esito”.A riconoscere i resti sono gli zii, i quali, secondo il racconto di Paolo, non avrebbero mai comunicato alla moglie della vittima né ai due figli i risultati”.
“I miei parenti”, precisa l’uomo, “ricevono i resti, ma non si sa che fine hanno fatto”. La Procura archivia il caso come omicidio e carico di ignoti. Ma non va oltre. La scomparsa di Pompeo Panaro resta una delle tante…”.
Dopo l’inchiesta di Repubblica, qualcosa si muove. La procura di Paola si decide a riaprire il caso. Improvvisamente, salta fuori una carta da pacchi perfettamente asciutta e integra, uno spago pulito e un po’ di nastro adesivo che incartano la cassetta di zinco che dovrebbe contenere i resti di Pompeo Panaro.
Annamaria De Luca, ancora su Repubblica.it, raccontava così gli sviluppi del caso.
“La carta e lo spago, in trent’anni di tempo, restano così nuovi?”, si chiede il figlio Paolo. Una domanda inquietante: quella carta da pacchi sta lì, senza alcun segno di ingiallimento o di umidità, davanti agli occhi degli uomini della squadra mobile di Cosenza, dell’Asl, dell’ufficio tecnico del Comune di Paola, dei responsabili del cimitero, dei due fratelli di Pompeo Panaro, del medico legale.
“Una sconcertante scoperta. Dopo anni e anni di ricerche che il figlio Paolo ha portato avanti da solo nonostante il flop delle indagini ufficiali, i misteri e le mancanze nelle carte, nonostante l’isolamento in cui la sua stessa famiglia lo ha messo, si è arrivati finalmente all’apertura di quel loculo senza nome, posto nella cappella di famiglia. Racconta Paolo aRepubblica.it: “Hanno scartato la cassetta di zinco. L’hanno aperta. Dentro c’erano due buste della Standa e un sacco nero per l’immondizia con dentro quel che rimane di mio padre. Non so dire la rabbia che provato nel vedere quei resti conservati in modo tanto indegno. Non so se siano stati i miei zii, dato che loro hanno avuto in consegna i resti nell’84, dalla Procura di Paola, quando io ero bambino. O se siano stati quelli delle pompe funebri. Chiunque sia, a lui va il mio sdegno più profondo. Non c’è giustificazione a una cosa del genere. Per mio padre, vittima di ‘ndrangheta, né un nome, né un funerale: questo lo sapevo già. Trovarlo dentro buste del supermercato è ora davvero troppo”.
Il mistero: mancano elementi fondamentali per l’identificazione. Secondo quanto è scritto nel verbale del 10 febbraio 1984, la Procura consegnò al fratello della vittima, Francesco Panaro, “un omero destro, capelli, barattoli metallici di olio infiammabile, un frammento di pantalone scuro, una scarpa da uomo e una chiave di un magazzino di Panaro”. Ma nella cassetta di zinco i capelli non ci sono e questo è molto grave: sono fondamentali per l’identificazione del Dna, dato che potrebbe essere molto difficile ricostruirlo a partire da un omero che è stato già sezionato. Secondo il figlio della vittima, i motivi possono essere solo tre: “dato che la riconsegna ai miei zii è avvenuta il 10 febbraio 1984 e che la tumulazione è stata fatta il giorno successivo – almeno questo è scritto nel fantomatico registro apparso dal nulla due settimane fa – i capelli o sono stati buttati dai miei parenti o dalla ditta delle pompe funebri o da qualcuno che ha manomesso il loculo per impedire di arrivare all’identificazione certa”.
Scomparsi anche i frammenti di cranio. “All’atto dell’apertura della cassetta – racconta Paolo – il perito ha chiesto dove fossero finiti i frammenti di cranio di papà. Nessuno ha risposto, allora io ho detto: forse qualcuno li avrà buttati, dato che nel verbale di sopralluogo del 13 giugno 1983 risultano trovati ma mai riconsegnati. Alla mia risposta i miei parenti si sono messi a ridere. Non ho sopportato un tale oltraggio in quel momento e quindi sono uscito fuori dalla cappella. Mi domando come sia possibile che all’epoca non abbiano chiesto la restituzione dei frammenti di cranio dato che nei verbali risultavano ritrovati. È questo che considero allucinante”.
Il registro ricomparso dal nulla. Dopo l’inchiesta di Repubblica.it, misteriosamente, due settimane fa (siamo a luglio 2013, ndr), nel cimitero di Paola è comparso un registro “specificazione delle pezze anatomiche” di cui nessuno sapeva niente e che riporta il nome di Pompeo Panaro. Il sindaco di Paola, Basilio Ferrari, dice: “Sarà nostra cura verificare se si tratta davvero di un registro ufficiale o solo di semplici annotazioni che vanno avanti da trent’anni e che riguardano operazioni diverse dalla sepoltura”. Di certo, prima di fare l’esposto alla Dda, Paolo Panaro ha avanzato richiesta di accesso agli atti sia al Comune che all’Anagrafe. Nella risposta del Comune, datata luglio 2012, c’è scritto: “Da sopralluogo effettuato in data odierna e presa visione dei registri degli anni ’82, ’83, ’84 e ’85 non risulta alcuna trascrizione e/o annotazione di decesso a nome di Panaro Pompeo”. All’Anagrafe risulta solo una dichiarazione di morte presunta. “Queste stesse circostanze sono state verificate ad aprile 2013 dalla Questura di Cosenza che ha confermato che non c’era nulla. Dopo due mesi, due sabati fa, apprendo dai giornali che è comparso misteriosamente nel cimitero di Paola un registro. Anche ammesso che il quello ritrovato sia un documento vero, resta il fatto che il registro ufficiale di sepoltura non riporta nulla”.
Interrogativi aperti. “Se la sepoltura è stata regolare perché i miei parenti non hanno mai scritto il nome di Pompeo Panaro sulla lapide né è mai stato fatto un funerale? – si chiede ancora Paolo – Spero che la Questura interroghi le persone coinvolte e ponga dubbi sulla validità di questo registro comparso dal nulla. Se fosse valido, sarebbero falso in atto pubblico tutti i documenti prodotti finora in risposta alla mia richiesta di accesso agli atti”.
Non resta che attendere gli esiti del Dna e sperare che l’omero sezionato sia sufficiente per arrivare a ricostruire l’identità di Pompeo Panaro…”.
Quasi superfluo sottolineare che di quegli esiti si sono perse le tracce.
Torneremo presto ad affrontare questo caso, anche perché, come vedremo, ci sono incredibili e inquietanti collegamenti con un altro Cold Case del quale ci stiamo occupando in queste settimane: l’omicidio di Giannino Losardo.