di Francesco Brusa
Fonte: il manifesto
In merito all’attacco israeliano all’Iran il Cremlino usa parole dure e nette (talvolta anche roboanti, com’è il caso del “solito” vicepresidente del consiglio di sicurezza Dmitrij Medvedev che ha paventato la possibilità di fornire l’atomica a Teheran), ma dietro la facciata di condanna si cela un atteggiamento più accomodante. Ieri, in mezzo all’intensificarsi dei bombardamenti sul proprio paese, il ministero degli esteri della repubblica islamica Abbas Aragchi è volato a Mosca per incontrarsi con il presidente russo Vladimir Putin. Ricevuto con tutti i crismi riservati agli alleati di fatto (la collaborazione nel campo dei droni si è rivelato un fattore importante nell’invasione in Ucraina) e di nome (a gennaio Russia e Iran hanno firmato un trattato di cooperazione strategica), difficile dire che il funzionario di Teheran esca dalla sua visita con promesse granché concrete.
DURANTE la conversazione, il leader del Cremlino ha buon gioco a ribaltare verso gli Stati Uniti e Israele le accuse che erano state mosse nei suoi confronti quando poco più di tre anni fa spediva i propri carri armati ad assediare Kiev: «L’aggressione contro l’Iran è assolutamente non provocata e priva di qualsiasi giustificazione o fondamento», dice infatti Putin all’inizio del suo discorso, riaffermando l’impegno della Russia a sostenere Teheran in questi momenti «complessi» e pieni di «tensione». Allo stesso tempo, però, nessuna scelta di campo risoluta e battagliera: anzi, il presidente russo ci tiene a rimarcare che ha canali aperti ed è in dialogo con le «controparti», dal suo omologo statunitense Donald Trump al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, suggerendo quindi di poter far più da «ponte» o mediatore che da sponda su cui contare per un aiuto incondizionato.
D’ALTRO CANTO, l’alleanza fra Teheran e Mosca non si è mai spinta oltre una certa soglia. Lo stesso accordo di cooperazione strategica non costituisce un’alleanza militare e non include una clausola di difesa reciproca in caso di aggressione. Anche nel caso dei droni di produzione iraniana Shahed 136 (o da definizione russa Geran-2), si è passati dall’importazione, pare già dal 2021, alla fabbricazione in loco. Grazie alla tecnologia acquisita dalla repubblica islamica, la Russia ha aperto centri sul proprio territorio e, secondo diversi report, dovrebbe riuscire a ottenere per quest’estate circa 6mila ordigni (riuscendo anche a sviluppare modelli più avanzati). Infatti, stando ai numeri forniti da Kiev, negli ultimi mesi la quantità di droni lanciati da Mosca contro l’Ucraina si è alzata sensibilmente (passando da una media di 60 a oltre 100 per attacco), a compensare la carenza di missili. Ancora la scorsa notte si sono fatti sentire: diversi edifici e obiettivi sono stati colpiti nella capitale e in altre regioni ucraine per un totale di 10 morti e oltre 30 feriti (dati delle autorità locali).
NON È TUTTO: a inizio mese 20mila delle difese anti-drone che nel frattempo stanno con tutta probabilità intercettando i contro-attacchi iraniani sulle basi Usa in Medio Oriente erano state dirottate dall’Ucraina verso Israele per decisione di Trump. In questo senso suona stridente il sostanziale appoggio dichiarato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, alle iniziative belliche contro Teheran, dal momento che gli sviluppi in corso non sembrano certo favorire Kiev (con l’incognita, fra l’altro, di una possibile chiusura dello Stretto di Hormuz sul Golfo Persico che potrebbe far schizzare i prezzi del greggio a beneficio di Mosca). Ma forse la realtà è che tutti guardano alla Casa Bianca e provano, ciascuno coi propri mezzi a disposizione, a ingraziarsi il sempre più imprevedibile leader a stelle e strisce. Zelensky, percependosi ai margini, reclama attenzione mentre Putin, fiutando un potenziale riconoscimento internazionale, scarica gli alleati di comodo e (ri)prova a sedersi «al tavolo dei grandi».