Questione morale e mafia: perché Chiara Colosimo non è adatta

(di Lirio Abbate – repubblica.it) – La politica decide nel giorno della ricorrenza dell’uccisione di Giovanni Falcone chi andrà a sedersi sulla poltrona di presidente della Commissione parlamentare antimafia. E non si comprende cosa non è chiaro a Fratelli d’Italia e a Giorgia Meloni, quando i familiari delle vittime di mafia e terrorismo scrivono e motivano nella loro lettera aperta che Chiara Colosimo, che FdI ha indicato come candidata, non può guidare l’antimafia. Ne spiegano le contraddizioni, le amicizie “nere” e gli scenari. Non si tratta di una questione penale, ma di etica della politica. Di incoerenze che in questa Commissione non possono esistere. Lo scrivono e lo chiedono donne e uomini che soffrono ancora per l’uccisione dei loro cari, che attendono ancora risposte, chiedono che venga fatta giustizia e pretendono la verità. Sono familiari lacerati che si sentono sospesi nell’aria e le loro parole non possono essere disperse al vento, ma raccolte e soppesate da una maggioranza di governo che nei fatti deve guardare a chi è rimasto indietro e chiede aiuto. Perché non può essere relegata a divisioni di poltrone, ma di sostanza.

Tutto ciò introduce un nodo che è la “questione morale”, che significa essenzialmente una cosa: pensare e agire avendo come obiettivo il prevalere degli interessi generali. Vale a dire gli interessi di tutti sugli interessi particolari, siano questi interessi di un singolo, di una cordata, di un gruppo, di un clan o di ogni altra forma di aggregazione. E il declino del senso etico della società è anche un problema di “cattivi esempi”. E purtroppo di questi casi ne registriamo diversi anche a Palermo dove la mafia ha mietuto decine di vittime innocenti.

Li ha descritti bene nei giorni scorsi Alfredo Morvillo, sostenendo che «Palermo, per la sua storia che tutti conosciamo, dovrebbe essere la capitale dell’antimafia, la capitale di una vera cultura antimafiosa. Invece continua a essere, nonostante i grandi risultati raggiunti da forze dell’ordine e magistratura, la capitale del solito squallido compromesso politico-mafioso, che ha sempre inquinato la vita della città». Parla a ragion veduta. E quello che afferma è purtroppo lo specchio di un’attualità politica cittadina e regionale che non guarda al sacrificio delle vittime degli attentati di Capaci e via d’Amelio, ma riflette dopo trentuno anni l’etica ancora sporca di politici che in Sicilia non riescono a tenere lontani i portatori d’acqua della mafia. E a nulla vale l’etica e la pulizia dei partiti professata in incontri pubblici. Il battersi per la doglianza il petto e dire “no alla mafia” o “la mafia fa schifo”, si rivela un’impostura.

Un altro nodo che intossica e soffoca i percorsi di legalità e verità è legato ad una perversa concezione del “primato dalla politica”. Un primato incontestabile, sia chiaro: perché spetta alla politica e solo alla politica il buon governo, cioè governare la cosa pubblica predisponendo leggi più idonee e controlli più efficaci contro la corruzione ed i rapporti col malaffare, i peggiori nemici dell’interesse pubblico.

Ha scritto Giovanni Falcone a metà degli anni Ottanta: «Una delle cause principali, se non la principale, dell’attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extraistituzionale». Le inerzie ed i ritardi nell’affrontare questi rapporti si spiegano forse col «sospetto che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti». Se le parole di Falcone avessero un senso ancora oggi, ecco spiegato perché sono tanto impervi certi percorsi di legalità e verità. Anche quelli che vogliono fare memoria del passato perché il nostro Paese non sia condannato a subire la “recidiva” di alcune nefandezze.
Occorre fare una scelta di campo, chiara e precisa per chi amministra. Far vedere con i fatti da quale parte si sta nella lotta contro l’illegalità e i poteri mafiosi.