Un anno fa esattamente a quest’ora Cosenza e Rende venivano sorvolate dagli elicotteri della Dda di Catanzaro per l’operazione cosiddetta “Reset”: oltre 200 arresti. Il procuratore Gratteri aveva messo nel mirino la confederazione dei clan cosentini della ‘ndrangheta e aveva colpito anche qualche colletto bianco, ma solo nella città di Rende, il cui comune sarebbe stato poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Oggi, a un anno di distanza, cosa ci resta di quel blitz, a parte la defenestrazione di Marcello Manna, detto anche Mazzetta, che comunque era già sputtanato più della porta della chiesa madre sconsacrata?
L’Italia è un paese che grazie alla Costituzione nata dall’antifascismo, garantisce a tutti i cittadini uguale trattamento di fronte alla legge e stabilisce i sacri e inviolabili diritti di un imputato. Per quanto questa Giustizia si sia troppe volte dimostrata non all’altezza del compito che la Costituzione le ha affidato, mostrandosi debole con i forti e forte con deboli, nascondendo, insabbiando e assolvendo i responsabili di tante pagine buie della nostra Repubblica, nella grande famiglia allargata dei magistrati, di cui è obbligatorio fare parte, tanti sono i servitori dello Stato che esercitano la loro delicata professione con coscienza e onestà.
Magistrati che non eseguono ordini calati dall’alto e che nella loro azione di repressione del crimine non guardano in faccia nessuno. Che non vuol dire annullare le garanzie costituzionali, pescare a strascico, incolpare innocenti, come si sentì dire nei giorni successivi al blitz, solo perché nella retata di Gratteri è finito Marcello Manna e altri colletti bianchi: più che una espressione di sincero garantismo, conoscendo i personaggi di questa città, sembra essere una difesa strumentale da parte di chi, direttamente o indirettamente, è colluso con gli arrestati, ed è disposto a difendere anche dichiarati mafiosi, pur di negare l’esistenza della ‘ndrangheta in città e i suoi legami con la politica.
Dopo gli arresti di un anno fa a Cosenza e Rende che hanno messo a nudo la grave ingerenza mafiosa in ogni spaccato della vita sociale dei cosentini e dei rendesi, non diciamo che mi aspettavamo i “fuochi di artificio”, ma una ferma condanna morale verso strozzini, mafiosi, narcotrafficanti, estorsori, e delinquenti incalliti, ce l’aspettavamo.
Non dalla politica che c’è dentro fino al collo, ma dalla società civile di queste città – Cosenza e Rende – che spesso si vantano di avere una superiorità morale, etica e culturale, rispetto a tutte le altre città calabresi e non solo. E invece tutti a nascondersi dietro al garantismo, ma verso chi? Verso personaggi che tutti conoscono e che tutti sanno di cosa vivono: soprusi, violenza, e prevaricazione. Gente che gira con macchinoni da 70mila euro, che pippa 5 grammi di coca al giorno, che strozza alla luce del sole padri e madri di famiglia, che impone il pizzo a tutti, che vende bustine a grandi e piccini, e che nessuno ha mai visto svolgere, nella loro vita, un solo giorno di onesto lavoro. Condannare questi personaggi che vivono parassitando sulle fatiche e sul sudore degli altri, indipendentemente dalla valutazione giudiziaria che faranno i giudici, è un dovere civico che qualunque sana comunità avrebbe fatto, e che Cosenza, l’Atene della Calabria, non ha fatto. Sembra quasi che la colpa è di Gratteri che ha messo in galera personaggi autorevoli e al di sopra di ogni sospetto come i Di Puppo, gli Abruzzese, Patitucci, Porcaro, D’Ambrosio e tanti altri, calpestando le loro garanzie costituzionali.
Ma non è così. Non vogliamo dire che non esistono gli errori giudiziari, ma non è questo il caso. E lo sappiamo tutti. I soggetti arrestati non sono innocenti di fronte al giudizio della società cosentina che ben conosce le loro malefatte. Questo è poco ma sicuro.
Cosenza città dell’apparenza. Altro che Atene della Calabria. In città esistono diverse realtà che svolgono attività di divulgazione contro la cultura mafiosa: c’è Libera, c’è “Musica Contro le mafie”, ci sono le associazioni antiracket, ci sono gli incontro culturali, le associazioni no profit e di promozione sociale, c’è chi scrive libri e chi disegna fumetti contro la mafia, ci sono i giornalisti in prima linea, gli intellettuali, la chiesa, i movimenti, gli alternativi, i radical chic, i Centri Sociali, i sindacalisti, e soprattutto c’è la meglio società civile di tutti i tempi. Tutti zitti, in un corale silenzio che sa davvero di arretratezza culturale e complicità sociale. Nessuno che abbia pronunciato una sola parola contro le cosche cosentine, e questo non solo squalifica la città, ma ci restituisce la vacuità di certa “antimafia” che si espone solo quando c’è da fare passerella a qualche ricorrenza. Chista è Cusenza!
Per dovere di cronaca, è giusto riferire che Pino Masciari, imprenditore e Testimone di Giustizia e Giancarlo Costabile, ricercatore e docente di Storia dell’Educazione alla democrazia e alla legalità dell’Unical avevano confiviso quanto scrivevamo noi e avevano così commentato.
All’indomani del maxi-blitz della Dda di Catanzaro che ha smantellato il sistema mafioso di Cosenza-Rende, arrestando 200 persone, esprimiamo profondo sconcerto per le mancate reazioni da parte della società cosentina. A parte poche voci libere, prevale il silenzio e in molti casi addirittura la solidarietà (perfino istituzionale) nei confronti di arrestati e indagati per accuse gravissime legate al voto di scambio con la ‘ndrangheta e alla piena complicità con l’economia criminale. Non sono mancati neanche gli attacchi (vergognosi e inaccettabili) verso l’operato di Nicola Gratteri verso il quale, ancora una volta, manifestiamo pubblico sostegno e piena prossimità umana. L’inchiesta Reset evidenzia, ancora una volta, non solo la forte presenza criminale in città ma soprattutto la capacità reticolare della mafia di condizionare ogni ganglio del vivere economico-sociale. A Cosenza, tutti pagavano il pizzo e in tanti, troppi, erano in affari con le cosche. È incomprensibile il mutismo delle associazioni antimafia e antiracket, degli imprenditori e dei commercianti, di partiti e sindacati, di intellettuali e movimenti culturali, dinanzi allo scenario di una società inginocchiata al potere della ‘ndrangheta.
Non intendiamo associarci all’indifferenza collettiva così come non vogliamo accettare di convivere con quello che Paolo Borsellino chiamava “il puzzo del compromesso morale”. Intendiamo, oggi più che mai, continuare la nostra lotta contro quella pedagogia complice della cultura mafiosa che si nutre di omertà e prevaricazione impastando violenza e corruzione. Una pedagogia legittimata, anche alle nostre latitudini, dalle classi colte, le più responsabili sul piano morale e sociale della diffusa connivenza popolare con la cultura mafiosa. Dinanzi al degradante quadro della normalizzazione delle mafie e dell’imprenditoria criminale, occorre ripensare radicalmente il ruolo dell’antimafia sociale che non può più limitarsi al mero compito di vestale della memoria (peraltro lautamente retribuita con denaro pubblico) ma deve assumere pienamente la funzione di pedagogia politica del cambiamento. È arrivato cioè il momento di passare dalla resistenza all’alternativa che non può che misurarsi con la costruzione di una ‘società profondamente altra’ rispetto a quella che si nutre di esplicita complicità con la pedagogia mafiosa e l’economia della corruzione criminale.