Rende. Tre domande all’Arpacal sull’incendio alla Calabra Maceri (di Matteo Olivieri)

Pericolo di inquinamento ambientale derivante dall’emissione in atmosfera di sostanze inquinanti e attività di gestione rifiuti in violazione alle prescrizioni imposte sono i reati contestati a Crescenzo Pellegrino, Amministratore Unico di Calabra Maceri e Servizi S.p.a dalla Procura della Repubblica di Cosenza. La notizia di oggi, relativa alla chiusura delle indagini sull’incendio alla Calabra Maceri di Rende, arriva dopo un anno e mezzo dai fatti, con gravissimo ritardo. Di seguito, una riflessione che pone un interrogativo inevitabile: ma perché si consente ancora tutto ciò?

Tre domande all’Arpacal sull’incendio alla Calabra Maceri di Rende
di Matteo Olivieri

Sono anni che a Rende si verificano anomalie nel settore della gestione dei rifiuti, sempre puntualmente segnalate dai cittadini, ma mai adeguatamente prese in considerazione dalle autorità competenti. L’episodio del recente incendio all’interno della ditta Calabra Maceri, che gestisce circa un terzo dei rifiuti prodotti in tutta la Calabria, è l’ulteriore prova che qualcosa non va nell’area industriale di contrada Lecco, a ridosso del popoloso centro abitato di Quattromiglia: in particolare, il sistema di trattamento e stoccaggio dei rifiuti appare un vero e proprio mondo al di fuori di ogni regola.

Visto che l’organo deputato al controllo delle prescrizioni di legge contenute nell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) è il Dipartimento Ambiente e Territorio della Regione Calabria «che si avvale dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Calabria (ARPACAL) per l’esecuzione del controllo dell’AIA», è a quest’ultima che intendiamo rivolgere alcune domande:

1) La struttura era dotata di «adeguati mezzi di primo intervento e di rapido impiego in caso d’incendio», tra cui un impianto antincendio perfettamente funzionante, considerata l’enorme mole di rifiuti trattati? Se sì, come mai nel cuore della notte sono dovuti intervenire i Vigili del Fuoco per domare l’incendio, la cui colonna di fumo nero era ben visibile sui cieli di Rende ancora a mezzogiorno?

2) Il piazzale antistante veniva effettivamente utilizzato solo in via temporanea per quelle tipologie di rifiuto «incapaci di dare origine a qualsiasi problema olfattivo, a sollevamento e creazione di polveri ed all’emissione di rumori molesti superiori ai limiti consentiti dalla normativa vigente per le aree industriali» oppure – stando ai resoconti di stampa – ospitava anche cumuli di rifiuti indifferenziati nonché balle di materiale plastico, a quanto pare non protetti nemmeno dalle intemperie, e che – in caso di incendio – producono composti chimici estremamente pericolosi per la salute umana?

3) Sono state prese tutte le «precauzioni per lo stoccaggio e la messa in riserva dei rifiuti pericolosi», tra cui l’utilizzazione di appositi contenitori coperti e a tenuta stagna, o l’adeguato distanziamento delle diverse tipologie di rifiuti stoccati? Più in generale, l’azienda era dotata di un piano per «prevenire e mitigare scenari che possono avere un impatto dannoso sulla salute pubblica», considerata la quantità e la tipologia di rifiuti pericolosi e non pericolosi trattati?

Quest’ultima domanda è senza dubbio quella più pressante, considerato inoltre che la ditta già da alcuni anni ha incomprensibilmente ricevuto pure le autorizzazioni per la produzione in situ di metano dai rifiuti, e dunque il rischio di esplosioni innescate da incendi non può essere preso alla leggera.
Domande semplici, forse retoriche, per le quali è necessaria una risposta celere da parte delle autorità preposte al controllo, e senza giri di parole. E poi se ne traggano le conclusioni, se rinnovare, sospendere o ritirare del tutto l’AIA per l’esercizio dell’impianto. Ne va della salute e della sicurezza pubblica.