Rogliano, malasanità: “Mi chiamo Giulia Stumpo, ho 87 anni e sono di Rogliano…”

LETTERA APERTA

Mi chiamo Giulia Stumpo, ho 87 anni e sono di Rogliano, un paese della Calabria in provincia di Cosenza.

Ormai da quasi tre anni sono malata di Alzheimer e, inoltre, cammino con il bastone, ma sono ancora autosufficiente. La mia vita scorre tranquilla circondata dall’amore dei miei famigliari e parenti. Almeno fino a quando repentinamente, verso la fine del mese di maggio, la mia salute comincia a peggiorare e, nell’arco di una settimana, non riesco più parlare e a deglutire bene. Inizio una terapia riabilitativa perché ormai non cammino più e passo dal letto alla sedia a rotelle.

Mio marito e mia figlia mi lavano, mi cambiano, mi pettinano e mi aiutano a mangiare, ogni giorno, esattamente come facevo io con i miei figli quando ancora erano piccoli. Inizialmente tutti credono che sia colpa dell’Alzheimer, poi scopriamo un tumore maligno alla testa del pancreas. Così aspetto la fine della mia vita, con il rammarico di doverla abbandonare, ma nel conforto dei miei cari e delle mura domestiche.

Alla mia famiglia però viene consigliato il ricovero in ospedale per un consulto oncologico e ulteriori approfondimenti clinici (TAC Total Body e aspirazione del versamento ascitico). Non mi piace l’idea di dover lasciare casa, tuttavia è necessario… Alla seconda crisi respiratoria viene contattato il 118 e mi portano al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Cosenza. Da lì vengo poi ricoverata al reparto di Medicina Generale dell’Ospedale “Santa Barbara” di Rogliano. Siamo tutti contenti perché è un piccolo ospedale e poi è l’ospedale del mio paese e ci lavorano i miei compaesani. Proprio a questo ospedale, durante l’emergenza Covid, la mia famiglia ha fatto una donazione per sostenerne le attività. Abbiamo sempre creduto nella sanità pubblica. Ho cresciuto i miei figli nell’amore e nel rispetto della res pubblica, del bene comune, dello Stato, a cui per quarant’anni di servizio come maestra elementare ho versato ogni centesimo delle tasse dovute.

I miei familiari mi affidano quindi fiduciosi alle cure degli operatori sanitari dell’Ospedale di Rogliano, anche se a causa delle misure restrittive per il Coronavirus non possono venire a trovarmi. Questo dura dieci giorni. Durante il ricovero possono telefonare una volta al giorno, dalle 13:00 alle 14:00, per sapere come sto. Ogni giorno uno dei miei figli telefona e telefona anche mio genero, medico e collega di chi mi tiene in cura. Le infermiere dicono che tutto va bene: mangiucchio, bevo, a volte vengo alimentata artificialmente, non ho tosse né conati di vomito, tutti motivi di apprensione per i miei figli che conoscono bene le mie problematiche.

E soprattutto dicono che non ho piaghe. Ma non dicono la verità. Io non posso parlare, non posso muovermi, sono nelle mani di chi dovrebbe accudirmi. Certo, se avessi potuto parlare avrei detto che soffrivo terribilmente per l’enorme piaga che, a seguito del ricovero, mi era venuta sui glutei e per l’infezione che mi era venuta in bocca, una bocca sempre sporca e asciutta perché nessuno mi dava da bere né mi bagnava le labbra; avrei chiesto di pulirmi gli occhi, che non riuscivo nemmeno ad aprire, perché nessuno li puliva più; avrei pregato di lavarmi il mento, il collo e il petto incrostati dai rigurgiti, di cambiarmi la canottiera e il pigiama, ormai sporchissimi. Dieci giorni di totale abbandono, dieci giorni d’inferno. Quando i miei figli e mio marito, dopo le dimissioni, mi hanno visto sono rimasti scioccati, sconvolti, sconcertati.

Da sempre tutti mi considerano una persona particolarmente pulita e ordinata. Io che il giorno del mio matrimonio mi sono messa a lavare le scale di casa, i miei parenti ancora ci scherzano, affinché tutto fosse pulito, per accogliere le persone nel decoro e nel rispetto della loro presenza, mi ritrovo così, sul finire della mia vita, abbandonata al completo degrado della mia persona. Deturpata dalla malattia, sì, ma soprattutto dall’indifferenza, dalla negligenza e dalla disumanità dei sanitari del reparto di Medicina Generale dell’Ospedale “Santa Barbara” di Rogliano.

Negli ultimi quindici giorni della mia vita, nonostante la malattia, l’enorme piaga è stata la principale fonte di tribolazione. Appena venivo messa in posizione supina il mio viso diventava una maschera di dolore e digrignavo i denti. Una sofferenza che avrei potuto risparmiarmi se solo quel personale avesse fatto il proprio lavoro, il lavoro per il quale è stato assunto e viene pagato. E quando mia figlia Sandra è venuta a prendermi in ospedale, e io venivo restituita in quelle condizioni miserrime, all’umiliazione della mia persona si è aggiunta l’umiliazione subìta da mia figlia. Preoccupata per me, lei che mi teneva come una Regina, aveva chiesto al medico che mi dimetteva, tal Dott. Spagnuolo, cosa potessi mangiare e in quali posizioni potevo dormire per poter respirare meglio, visto che poco dopo mi è stato necessario l’ossigeno. E questo medico la redarguiva rispondendole che le sue erano domande stupide e che lui non aveva tempo da perdere.

Ogni notte mia figlia Sandra si sveglia di soprassalto per il solito incubo: io sofferente, la mia maschera di dolore sul volto, il respiro affannoso, la saturazione che diminuisce, indifesa nella mia malattia e incapace di chiedere aiuto, di suonare il campanello, abbandonata come un cane randagio. Abbandonata dal degrado, decadimento, incuria, imbarbarimento della malasanità (del Sud?). Tutte le mattine, al risveglio, mia figlia bacia la mia foto e piangendo mi chiede scusa per avermi portata in ospedale, parola questa che deriva dal latino hospitale, neutro sostantivo dell’aggettivo hospitalis cioè O-SPI-TA-LE.

Ci sono tantissimi bravi medici. Seguivo emozionata e piena d’ammirazione il lavoro svolto negli ospedali per fronteggiare l’emergenza Covid. Mio genero è medico e anche mia nipote. Ho moltissima stima del loro lavoro. Ma non tutto il personale ospedaliero, purtroppo, agisce con coscienza e umanità, medici dimentichi del giuramento di Ippocrate e soprattutto di essere forse figli di genitori anziani come ora lo sono io.

Io voglio che non accada mai più, soprattutto perché il reparto di Medicina Generale dell’Ospedale “Santa Barbara” di Rogliano ha la lunga degenza. Nessun anziano, nessuna persona deve essere lesa nella sua dignità umana. Noi “vecchi”, anche se stiamo morendo, non siamo ancora morti. E meritiamo rispetto.

Giulia Stumpo (14 settembre 1933 – 8 luglio 2020)

(lettera di Arianna Fioravanti e Sandra Vizza. Dalla testimonianza di Sandra, figlia secondogenita di Giulia)