Roma, le mani della ‘Ndrangheta sulla Capitale: dall’Eur a San Giovanni, tutti gli affari economici gestiti dai clan

di Camilla Mazzetti

Fonte: Il Messaggero

Ci sono forni, bar e ristoranti, società che gestiscono i prodotti ittici in arrivo dalla Calabria e li servono a locali più o meno consapevoli di stare ad acquistare il pisci dalla ndrangheta. Loro, gli Alvaro-Carzo, c’erano ma non apparivano. Padroni fantasma verrebbe da dire a leggere lo schema ben articolato e svelato nuovamente, dopo l’operazione Propaggine della scorsa primavera, da Dda e Procura che per mano della Dia ha portato ieri all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 26 persone (24 in carcere e due ai domiciliari) per associazione mafiosa, sequestro di persona, fittizia intestazione di beni.

Scatole cinesi ben congegnate gli permettevano di governare e gestire introiti, affari, di usare quelle attività per riciclare denaro, emettere scontrini falsi per ripulire i soldi sporchi e uscirne loro puliti. Una dozzina almeno le attività riconducibili tramite teste di legno e prestanomi alla locale arrivata a Roma da Cosoleto, un paesello di poche migliaia di anime in provincia di Reggio Calabria. E il sistema aveva fruttato tanto da far dire a due organici della locale qua c’è un poco di pastina per tutti.

C’era il Binario 96, ristorante di via Nocera Umbra, riconducibile alla Ru.Pa 2020 srl, intestata fittiziamente a Paolo Russo e gestito mediante la società Station food srl dietro cui si nascondeva Vincenzo Alvaro ed altri sodali. C’era la società Valba group srl con sede in via Serafico attraverso cui, dal dicembre 2020, si controllava un laboratorio di pasticceria in via Pasquale Alecce.

C’era la Protomar Roma srl (via Nomentana) intestata fittiziamente a due teste di legno ma di fatto controllata sempre dall’Alvaro.

C’era Briciole e delizie di via Eurialo 7 che sempre l’Alvaro intestò alla figlia Carmela. Quando il locale fu sequestrato preventivamente e posto in amministrazione controllata la donna, classe 1990, minacciò e sequestrò l’uomo preposto alla gestione degli incassi dall’amministratore giudiziario. L’uomo ne uscì illeso, dopo un sequestro di 15 minuti, perché arrivò il fornitore del latte e riuscì a scappare. Nel novero degli affari e dei comportamenti una parentesi va riservata proprio alla figlia di Vincenzo Alvaro che, oltre a minacciare le figure che si trovarono ad amministrare quelle che, a suo dire, erano le sue attività – «sei un infame servo dello Stato… non devi toccare i miei soldi» -, andava fiera di essere figlia di un boss.

Tornando ai locali controllati c’era anche il bar Pedone di via Ponzio Cominio che passa da una società all’altra quando ad aprile scorso la Novecento S.r.l.s viene confiscata in via definitiva e l’intero capitale passa alla Pedone s.r.l.s. Sempre per eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali l’Alvaro insieme ad un sodale attribuivano fittiziamente ad Alexandru Andrei Spiridon la titolarità della società Corallo e coratella s.r.l.s che al posto della Fish Roma s.r.l (riconducibile ad Alvaro) gestiva un ristorante a Fonte Nuova, via Palombarese. E poi ancora il bar Tintoretto, di viale Tintoretto, il bar Alla 49 di via Selinunte, il Gran caffè Cellini di piazza Capecelatro.

La locale a Roma dettava legge anche sul rifornimento ittico attraverso accordi con diversi ristoranti, alcuni del Centro, che consapevolmente o meno acquistavano il pesce da loro. La Cala Roma s.r.l attraverso un accordo stipulato nel ristorante All’angoletto, con la cosca Farao-Marincola di Cirò, avrebbe goduto di un privilegio su altri operatori ittici nei porti di Cirò e Cariati e forte di questo la locale romana provò anche a condizionare la cessione del pesce in arrivo dal porto di Schiavonea Marina (provincia di Cosenza).

Nell’ordinanza firmata dal gip Gaspare Sturzo si legge come operava il sistema Alvaro: «l’abbandono della società ritenuta compromessa era lo strumento che il clan utilizzava stabilmente per continuare a possedere attività commerciali mediante l’intestazione fittizia per non perdere il controllo economico delle stesse, e dimostrare di essere più forti dello Stato, delle autorità giudiziarie, delle indagini, dei creditori e dei sequestri penali, di prevenzione e civili, come chiaro monito alle popolazioni locali che loro non potevano essere sconfitti e che gli altri subire o avere paura». Molte delle attività controllate sono state sequestrate e poste in amministrazione controllata. Altre sono chiuse, proprio come uno dei ristoranti delle mangiate ovvero i summit. A Binario 96 cancelli sbarrati e ombrelloni rotti. «Solo questo ristorante dopo il Covid – dice una residente di zona – fu ristrutturato di tutto punto, oggi mi chiedo con quali soldi?». La risposta non è difficile.