di Emiliano Morrone
C’era una volta la Dc di Carmelo Pujia e Riccardo Misasi. Allora esistevano le sezioni di partito, il contatto umano e la pratica del territorio. C’erano le “quaterne”, lo scontro ideologico e il ministero per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Ai tempi spopolavano i discorsi elettorali, che accendevano le masse, alimentavano speranze, aspettative e l’orgoglio dell’appartenenza.
Pujia era senz’altro più pragmatico, diretto e votato. Misasi sapeva usare la parola, con cui incantava le folle. Uscito dalla Cattolica, aveva cultura, spessore e un’autorevolezza riconosciuta, invidiata, riverita. I due erano complementari: Pujia cercava i voti pure per Misasi, che con gli elettori era meno empatico ma veniva più ascoltato in parlamento e dal governo.
In quell’epoca si susseguirono scontri, misteri, inganni, tensioni, favori, stragi e finanziamenti illeciti ai partiti. Il sistema, più avanti «ingegnerizzato», girava così, ma reggeva perché la politica aveva peso, era di peso e non si profilava la svendita del patrimonio pubblico italiano. Aggiungiamo che non si era concluso il percorso della moneta europea, errato e fatale secondo il giurista Giuseppe Guarino.
Poi vennero, ognuno in un campo, Antonio Di Pietro, George Soros, Umberto Bossi, Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi. Venne Prodi. Venne l’accordo sulle tv di Silvio Berlusconi, ricordato da Luciano Violante, tra il «Cavaliere» e i «compagni» della vecchia guardia comunista. Venne la Bicamerale di Massimo D’Alema e più tardi crebbe il potere della rete sfruttato dalla coppia Grillo-Casaleggio. Venne quindi la “milizia” renziana, decisa a riscrivere la Costituzione. Accaddero tante vicende, prima e dopo «Tangentopoli»: oscure o finora in penombra, archiviate o riprese, sigillate o rilette. Su tutte spicca la storia, irrisolta, della cosiddetta «trattativa Stato-mafia».
Fatto sta che la politica perse credito, ruolo e funzioni. Dunque, si trasformò in comunicazione ossessiva, in marketing permanente, in stimolatore perpetuo degli istinti bassi incontrollabili, davanti all’indebolimento delle istituzioni pubbliche, al paradigma aziendalistico della sanità, della scuola e del sapere, all’autonomia sbilenca delle Regioni, all’equilibrio e al pareggio di bilancio. Tra il battesimo dell’euro, la «crisi dei mutui subprime» e l’irrefrenabile impennata dello spread del 2011, la politica si chinò alla ragione dei conti, alla burocrazia e al diritto imperiosi di un’Europa distante dal sogno comunitario del film Lisbon Story, dal riconoscimento della propria matrice cristiana e dall’unificazione politica degli Stati membri.
Nel contesto attuale, perciò, la politica vive di espedienti, schizofrenie, narrazioni e finzioni. E cerca puntualmente facce da piazzare sul mercato elettorale, da imporre con l’obiettivo di vincere a qualunque costo, noncurante dei trascorsi, della coerenza e della credibilità dei singoli candidati. È l’effetto della disregolazione del sistema immunitario della ragione collettiva, anche perché non c’è più identità del territorio, non c’è più legante sociale, non c’è più desiderio di affrancamento comune, istanza di riscatto e progresso generale.
Questo processo degenerativo è molto più diffuso ed evidente nel Sud, in particolare nell’interno della Calabria, che continua a svuotarsi di persone, energie e risorse. Dopo aver riassunto lo smarrimento progressivo del Partito democratico di San Giovanni in Fiore, oggi diciamo del cortocircuito incendiario nel centrodestra regionale, che si sviluppa e misura proprio nella campagna elettorale per le Comunali di lì.
Rosaria Succurro, assessore comunale a Cosenza e vicina a Mario Occhiuto e Jole Santelli, è la candidata ufficiale del centrodestra, con il beneplacito di tutti i partiti della coalizione. Tuttavia, «la Lega di San Giovanni in Fiore – dichiara il coordinatore, Bernardo Spadafora – è fortemente contraria e chiederà pertanto di convergere su Antonio Lopez, consigliere comunale uscente di Fratelli d’Italia e unico rappresentante del centrodestra nel nostro municipio».
«Fin qui – riferiscono fonti accreditate – negano l’appoggio alla Succurro anche Angelo Gentile e Giuseppe Bitonti (rispettivamente di Forza Italia e Udc, nda), che continuano a lavorare per il loro candidato civico Salvatore Mancina», già aspirante consigliere regionale nelle fila di Mario Oliverio e di recente benedetto dal consigliere regionale Luca Morrone (FdI).
L’altro candidato sindaco Domenico Caruso, portato da una lista lontana dai partiti ma scontenta del centrosinistra, «non sosterrà mai la Succurro», assicura un fedelissimo. Ancora, Pietro Silletta, candidato civico di una lista di ispirazione forzista, proseguirebbe per la propria strada. Infine, come se ancora non bastasse, c’è la candidatura dell’ex sindaco di San Giovanni in Fiore Antonio Barile, rimasto orgogliosamente affezionato a Giuseppe Scopelliti, già presidente della Regione Calabria.
Neel campo del centrodestra, dunque ci sono sei (!) candidati alla guida del Comune di San Giovanni in Fiore: Succurro (imposta dai vertici del centrodestra regionale), Lopez (Lega e società civile), Mancina (Forza Italia, Udc e società civile), Caruso (società civile), Silletta (società civile) e Barile (base di centrodestra e società civile). Rispetto a questa proliferazione di candidature sembra esserci l’assoluta indifferenza degli assessori regionali Fausto Orsomarso (FdI) e Gianluca Gallo (Forza Italia), benché attivi nelle dinamiche riguardanti le Comunali di San Giovanni in Fiore. In politica ciascuno ha un motivo, un interesse, una strategia, spesso più utile a sé che non alla propria squadra.
Di là dall’atteggiamento specifico – silenzioso, attendista o sbracato – dei big del centrodestra regionale, qui, per dirla alla De Andrè, «la lotta si fa scivolosa e profonda». Perché, come abbiamo potuto ricostruire, la Succurro è stata calata dall’alto, senza alcun confronto con gli esponenti del centrodestra sangiovannese. Perché il suo nome è stato annunciato a mezzo stampa, saltando a piè pari la necessaria condivisione tra le parti. Perché, secondo quanto riferisce un dirigente locale di partito, «i livelli regionali vogliono fumo ed effetti speciali, sicché se ne fregano di chi sul posto ci mette faccia, cuore, tempo e soldi». Perché – lamenta un militante di lungo corso – «gli accordi del caso sembrano riservati ai soli piani alti, chiusi con qualche telefonata e un paio di messaggi WhatsApp».
C’era una volta la Dc di Carmelo Pujia e Riccardo Misasi. Allora esistevano le sezioni di partito, il contatto umano e la pratica del territorio.