dalla pagina FB di Gioacchino Criaco
Le operaie e gli operai convivono con un presentimento che li assale ogni mattina insieme al caffè della moka.
Una paura che si trasforma in tragedia per due, tre, quattro di loro ogni giorno.
Storie che non interessano, non sfondano nella comunicazione che adora le vicende edificanti, i finali rassicuranti, gli echi di drammi lontani che ci coinvolgono perché, egoisticamente, siamo convinti non ci apparterranno mai.
Ci sono mondi vicinissimi, terribili, sporchi. Periferie selvatiche, che non staranno mai al centro della scena, di una qualunque scena che non sia il centro di un dito puntato, il paradigma di un “noi non siamo come voi”.
Degli operai ci piacciono le bidelle eroiche, che alla fine ce la fanno. Ci piacciono i maestri equilibristi che dentro uno stipendio misero si ritagliano i soldi per una piece teatrale, un libro cult.
Ma le operaie, gli operai, compagne, compagni, padri madri figli fratelli sorelle, che prima di uscire strappano lungo i bordi la pagina del libro in cui sono comparse, per non lasciare traccia della loro esistenza, casomai non ci fosse ritorno, sono storie di nicchia:
“Siamo gli operai e le operaie che volano dai tetti/ che si seppelliscono di lastre/ che si fanno sottili fra le presse/ che danno in pasto gli arti a macchine voraci/ ci svegliamo di soppiatto/ tiriamo via le pagine del libro in cui stiamo”.
Instancabile, Elio Petri, continua a costruirci paradisi. Senza tregua Ennio Morricone e Chico Buarque ci fabbricano colonne sonore e canzoni per accompagnamenti in musica.
Per non deluderli c’immoliamo in mille e più modi fantastici:
Voliamo da sopra i tetti, ci facciamo stritolare dagli orditoi o dalle presse, si lasciamo sotterrare dai detriti, schiacciare dalle lastre di marmo, schiaffeggiare dai cavi d’acciaio.
Crolliamo a testa in giù dagli alberi o affrontiamo treni in corsa. Sfidiamo le fiamme.
Potremmo lasciarci sopraffare dallo sforzo, semplicemente, ma sarebbe poco coreografico.
Ci alziamo a orari improbabili del giorno e della notte e celebriamo un rito per ogni atto: l’amore, la colazione, il bacio ai figli, le carezze ai gatti, il sorriso agli sconosciuti sulla metro, lo struscio nei bus.
Tutto come fosse un ultimo, irripetibile atto.
Tutto come fosse l’alba definitiva, il tramonto in agonia, la notte in estinzione.
Siamo figli e figlie di una epifania tragica noi operai, noi operaie, una manifestazione divina senza ricorrenza né festa.
Ogni giorno è il nostro giorno, almeno per due, tre, quattro, cinque di noi.









