“Sindrome del figlio d’arte”, Antoniozzi e il familismo (di Salvatore Belfiore)

“SINDROME DEL FIGLIO D’ARTE”, ANTONIOZZI E IL FAMILISMO
di Salvatore Belfiore

Ho imparato a riconoscere quanto il nostro paese (senza alcuna distinzione tra nord-sud e isole ahimè) sia essenzialmente un paese a “conduzione familiare”. Per quanto ci si sforzi di millantare una eroica e romanzesca “meritocrazia”, tutti i settori della nostra società sono orrendamente compromessi da “eredi” e personaggi che ricoprono ogni tipo di carica e mansione, solo perché discendenti di illustri genitori. Chi è a capo di aziende private, può, ovviamente, sentirsi libero di assumere tutti i parenti che preferisce, ma i dati davvero inquietanti dovrebbero richiamare la nostra attenzione, quando si riferiscono alla pubblica amministrazione e a tutti i settori della nostra società, nei quali anche i figli dei “comuni mortali”, avrebbero il diritto di accesso.

Non sono stato l’unico a pensarci se, nel 1958, fu coniata la definizione di “familismo amorale” dall’inglese amoral familism) concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (trad. it.: Le basi morali di una società arretrata, 1976). Lo studioso, prese come oggetto della sua indagine un paesino della Basilicata e analizzandone la sua struttura sociale basata sulla mera perpetuazione dei benefici derivanti dall’appartenenza a determinate famiglie, teorizzò che proprio questa assenza di “senso comunitario”, meritocrazia e dinamiche prive di etica, fossero la causa dell’arretratezza su tutti i campi…

Cosa direbbe, oggi, Banfield se osservasse l’Italia di questi tempi o la nostra Calabria? La mia riflessione però nasce dai casi di cronaca di questi giorni e dai ricordi che ho sempre mantenuto vivi in merito a una tipologia umana, con la quale tutti noi siamo o siamo stati costretti a relazionarci, ovvero quella del “figlio-a di”. E non mi riferisco a una citazione della canzone di Loredana Bertè, ma alla categoria conosciuta come: “figlio d’arte”, tipologia nata nel mondo del teatro, ma che poi, ahimè, in Italia è stata estesa a tutte le categorie…Sono i figli di genitori illustri, i quali, automaticamente potremmo dire, ripercorrono le strade dei suddetti genitori (come se il talento fosse ereditario…), usando le facilitazioni (di ogni tipo) scavalcando graduatorie, gavette e tempi tecnici, che invece i “figli di nessuno” sono costretti a percorrere.

Ricordo moltissimi episodi nella mia formazione scolastica (dalle elementari al liceo…) di bambini e ragazzini, figli di illustri medici, avvocati, politici, imprenditori e di tutta la Catanzaro “bene” potremmo dire, che si facevano riconoscere, non tanto per le loro prodezze scolastiche, quanto per le loro intemperanze disciplinari… atti vandalici, materiale scolastico distrutto o trafugato, dessert a base di escrementi servito a ignari compagni e professori… ogni sorta di comportamento antisociale e criminale, che il più delle volte, ha avuto poche o nessuna ripercussione disciplinare.

Eh già, perché i “figli di” sono consapevoli di appartenere a un mondo che li porta su un piedistallo dal quale credono e sentono di poter dire e fare ogni cosa. Per i “figli di”, la giustizia e le regole applicate per tutti gli altri non esiste e mai esisterà e la fitta rete di privilegi di cui abusano e che espongono con protervia, li rende intoccabili agli occhi di quelli che accettano di subire ogni sorta di prevaricazione in silenzio. Sono dell’avviso però, che prima o poi il conto (salatissimo alle volte) anche i suddetti “figli di”, lo paghino.

Alla luce della mia esperienza personale e anche se analizzassimo i dati di cronaca, credo che sarebbe opportuno parlare di una vera e propria “sindrome del figlio d’arte”, sindrome squisitamente italiana, che, soprattutto nel nostro Sud, trova le sue più ampie declinazioni…Pensiamo al figlio del deputato di Fratelli di Italia, Tancredi Antoniozzi …già a ventitrè anni, con capi di imputazioni gravi e che dopo avere insultato e aggredito agenti di polizia in seguito a un banale controllo, ha usato la famosa frase da prima repubblica: “voi non sapete chi sono io …vi rovino…io conosco XX…domani vi farò perdere il lavoro…”. Eh si, perché tali soggetti, avendo avuto ogni sorta di strada spianata e non conoscendo affatto quali siano le giuste tempistiche per raggiungere determinati traguardi, crescono credendo di non avere alcun limite. E quindi vivono ogni sorta di relazione umana all’insegna della prevaricazione, del sopruso e si aspettano di ricevere tutto e subito, proiettando sulle relazioni extra familiari lo stesso modello tossico e viziato con il quale sono stati allevati.

Pensiamo al mondo dell’arte… quanti figli di cantanti, attori, comici, si sono ritrovati a calcare palcoscenici, favorire campagne elettorali (avendo in cambio regalie di ogni tipo) solo perché figli di illustri genitori? Tutto ciò, neanche ci indigna più, siamo così vergognosamente abituati al fatto che rientri in una pseudo normalità, che non ci chiediamo, ad esempio, se Alberto Angela avrebbe avuto un programma in prima serata su rai uno con un altro cognome o se il figlio di Beppe Grillo sarebbe ancora a piede libero se si fosse chiamato Brambilla… Accettiamo, senza fiatare, le chiamate dirette nelle nostre pubbliche amministrazioni, le fulminanti carriere da direttore sanitario, le improvvise promozioni e le cariche dirigenziali negli uffici regionali…”è sempre stato così…se tu potessi farlo e avessi dei figli, non lo faresti?” Questo mi sento ripetere. I “figli d’arte” però, credo subiscano profondamente l’effetto boomerang di queste dinamiche.

Dentro ognuno di loro, dal cabarettista giullare miracolato di provincia, al neo primario del policlinico, credo alberghi un profondo disagio a base di inadeguatezza e ansia da prestazione. Tutti loro sanno, che il mondo, prima o poi, chiederà il conto per le loro mirabolanti promesse che prima o poi, saranno costretti a mantenere o disattendere. L’ombra degli illustri genitori li accompagnerà sempre e a poco servirà usare altri nomi o cognomi per cercare di depistare eventuali confronti o paragoni, prima o poi la resa dei conti ci sarà sempre. Fare i teppistelli al liceo o infestare le pubbliche amministrazioni usurpando graduatorie senza alcun merito, hanno un tempo.

E forse, se il deputato Antoniozzi si fosse premurato di educare il suo giovane figlio al rispetto della legalità, anziché prodursi in continui comunicati in favore di ogni ruberia territoriale nei confronti del capoluogo di Regione ad opera dell’amministrazione di Cosenza, forse… Ma l’ombra dei Grandi Padri e delle Grandi Madri è qualcosa che non abbandonerà mai i suddetti figli d’arte, che potrebbero emanciparsi, solo se decidessero di intraprendere strade indipendenti per svincolarsi da inevitabili confronti. Personalmente non ho alcuna stima di chi si ritrova a vivere di privilegi immeritati. Preferisco chi studia, vive e si arrabatta utilizzando ogni sua forza per portare nel mondo il suo contributo, attraverso il “merito”, magari sbattendo contro muri di gomma, ma trovo molto più onorevole rivendicare il diritto di “fare schifo da soli”, anziché essere dei parassiti con le spalle coperte da un’ascendenza illustre.