Un No al Ponte con ventiquattromila baci
di Martina Lo Cascio*
Fonte: Jacobin Italia
Prima di sapere se il Ponte crollerà o non crollerà, per la gente del posto sarebbe prioritario comprendere se riuscirà ancora a vivere e a respirare
Da decenni per il movimento No Ponte agosto è una tappa obbligata per un corteo, per ribadire che la cittadinanza deve difendere il diritto alla vita e farlo significa rifiutare il progetto di un’opera definita inutile e criminale dal movimento stesso. Ancora di più quest’anno dopo la conferenza stampa del ministro Matteo Salvini del 6 agosto in cui ha annunciato l’approvazione del progetto definitivo del Ponte da parte del Cipess (il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile).
Ne abbiamo parlato con Giuliana Sanò, attivista dell’assemblea No Ponte che insegna antropologia sociale all’Università di Messina.
A che punto è la narrativa e il progetto sul Ponte sullo Stretto?
Dipende da quale punto di vista vogliamo osservare le narrazioni e le rappresentazioni cucite addosso a questa grande opera. I sostenitori del ponte provano a tenere in vita una narrazione che si sviluppa intorno al grande tema del «progresso». Non è chiaro, tuttavia, a quale idea di progresso essi facciano riferimento, dal momento che quello che a noi viene venduto come un volano per lo sviluppo e il progresso del territorio non presenta nessuna delle caratteristiche (valore sociale, riduzione degli impatti ambientali, sostenibilità) che anche dall’Unione europea vengono associate all’idea di progresso. Insomma, anche volendo rimanere su un terreno distante dal nostro – cioè su un terreno che non contempla i bisogni della classe lavoratrice, delle soggettività oppresse e marginalizzate – e ragionando nei termini e con gli strumenti di chi dal cuore dell’Europa stabilisce le regole del gioco, il Ponte non si avvicina nemmeno lontanamente a ciò che viene venduto come «progresso». Comunque la si guardi (o la si pensi), la vicenda del Ponte sullo Stretto somiglia sempre di più a una scatola vuota: di idee, di contenuti, di concretezza e di reali speranze.
Anche le narrazioni sull’aumento dell’occupazione territoriale che generalmente vengono fatte circolare, sono state smascherate proprio da chi questo ponte vuole a tutti i costi intestarselo: a realizzare la grande opera – ha dichiarato in conferenza stampa il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini – saranno aziende lombarde, venete, romagnole e laziali. Le aziende di Sicilia e Calabria non sono formate e non rientrano nei piani di «sviluppo e progresso» associati alla grande opera. Il ricatto occupazionale, la moneta di scambio che ha permesso ai padroni del Nord di trasformare il Sud Italia in una gigantesca discarica, non regge più: perché i vantaggi di questa grande opera dovranno tornare tutti al Nord.
Ad ogni modo, le narrazioni – o le chiacchiere – in questo momento stanno a zero. In tante e tanti pensiamo che alzare la posta in gioco, dichiarare a ogni piè sospinto che i cantieri stanno aprendo e che un ulteriore passaggio burocratico è stato superato, serva solo a tenere in vita un sistema di potere che, al netto delle strutturali criticità dell’opera, può rimanere in piedi solo se spinto da roboanti annunci.
Quest’idea di sviluppo, la sua linearità e la sua mera espressione di profitti di pochi è stata già smascherata da decenni dai meridionalisti marxisti eterodossi, dalle teorie della dipendenza e ancora da numerosi movimenti di opinione o di organizzazioni e reti promotrici di pratiche ed economie anticapitaliste. Cosa significa oggi guardare alla promessa di inizio cantiere del Ponte e contestarne l’immaginario da Torre Faro, da Messina, dalla Sicilia?
Il popolo No Ponte porta avanti da decenni ragionamenti e discorsi che in questi ultimi anni si sono intensificati. I discorsi di chi vive in queste zone parlano di acqua, casa, lavoro, territori, servizi, salute, beni comuni e sociali. Ma non solo: tra i discorsi che il movimento No Ponte porta avanti compaiono anche le saldature che si attivano tra l’operazione di costruzione del Ponte, la militarizzazione del territorio e il dispositivo coloniale.
Durante la conferenza stampa che la mattina del 6 agosto ha annunciato il corteo di sabato 9, l’Assemblea No Ponte ha intrecciato tutti questi discorsi per ribadire che contestare la realizzazione di quest’opera significa anche rifiutare la guerra. Non a caso lo slogan scelto dalle e dai manifestanti recita: vogliamo l’acqua, non la guerra.
Tre le intenzioni del governo c’è infatti anche quella di far quadrare i conti dell’aumento delle spese Nato imposto da Donald Trump con la realizzazione del Ponte, che a questo punto si guadagnerebbe il ruolo di infrastruttura militarmente strategica. Indipendentemente dal buon senso che in queste circostanze dovrebbe prevalere, poiché nell’eventualità di una guerra il Ponte sarebbe proprio uno dei primi bersagli a essere preso di mira e a saltare, per il movimento No Ponte non si tratta nemmeno di discutere di cosa sia o non sia strategico, per il semplice fatto che è contrario alla guerra: qui come in Palestina e altrove.
Così come è contrario a qualunque forma di colonialismo: culturale, politico, economico e simbolico. Dal megafono del corteo del 9 agosto si sono levate voci che hanno ribadito che lo Stretto non è in vendita. A chi continua a evocare il fantasma del «progresso», le e i manifestanti hanno ricordato che in questo territorio l’acqua arriva mediamente per 4 ore al giorno, che le strade di Messina e Villa San Giovanni sono ostaggio di decine di camion che giornalmente sbarcano e sfilano nei centri abitati, che a ogni pioggia frana un pezzo di città, che lo spopolamento ha raggiunto cifre a tre zeri, che la sanità è al collasso e moltissimi plessi scolastici non sono idonei.
Le e i manifestanti hanno ribadito che il Ponte non risponderà a nessuna di queste istanze, per il semplice fatto che ciò che ci chiedono è di asservirci, di rimanere a guardare la devastazione del nostro territorio in silenzio. Tra le case che non verranno espropriate ce ne sono parecchie i cui giardini, terreni e cortili verranno, invece, «asserviti» al passaggio dei camion, agli alloggi per la manodopera e ai servizi accessori. Questi asservimenti non compaiono nelle testate dei giornali, non fanno numero. Ma la verità è che le e gli abitanti dello Stretto verrebbero letteralmente condannati a un destino di espropriazione, di asservimento e di svendita (altro che indennizzi stellari!). Non solo le loro case, i loro terreni e le strade della città, ma l’intera esistenza di queste persone si ritroverebbe a fare i conti con tutto questo. E noi non possiamo permetterlo.
Così come non possiamo permettere che colui il quale ha costruito la propria carriera politica sull’odio e il disprezzo per le persone meridionali venga oggi a parlarci di progresso e sviluppo, sfidando la nostra memoria e il nostro senso di giustizia. Al contrario, la nostra memoria è piuttosto lunga e non abbiamo nessuna intenzione di dimenticare o di sorvolare sulle dichiarazioni del ministro, che rispondendo a una domanda sulla resistenza del Ponte in caso di terremoto non ha esitato a rispondere: «Il Ponte sullo Stretto è studiato per resistere a terremoti devastanti. Che Dio non voglia: se ci fossero, avrebbero effetti terribili sulle città, ma non sul Ponte». Anche volendo trascurare il fatto che il ministro sta parlando di due città che portano ancora le cicatrici del devastante terremoto del 1908, e questo dovrebbe bastare ad avere se non altro un po’ di pudore ad affrontare questo tema, il nodo è un altro: l’idea di spendere diversi miliardi di euro per l’edificazione di un ponte «incrollabile» su un territorio che, per ammissione dello stesso ministro, andrebbe incontro a terribili effetti in caso di un terremoto è un’idea paradossale. Il paradosso per cui alla messa in sicurezza dei territori si preferisce la realizzazione di un Ponte tra due zone idrogeologicamente fragilissime.
Puoi raccontarci cosa è successo durante la conferenza stampa di Salvini a Torre Faro?
Ti sembrerà strano ma ciò che è successo il pomeriggio del 6 agosto sulla spiaggia di Torre Faro – nella striscia di costa che verrebbe letteralmente cancellata da uno dei pilastri del Ponte – è sfuggito quasi a tutte e a tutti. Solo il genio degli autori di Blob ha saputo raccontare cosa è accaduto veramente. La tecnica del montaggio ha sottratto l’evento all’omologazione dell’Io narrante – la propaganda – rendendo visibili quelle soggettività, poco omologate, riunitesi a contestare la presenza e i festeggiamenti del ministro. Un festeggiamento che, sinceramente, è risuonato come un’imperdonabile offesa, come un pugno nello stomaco a chi, nella migliore delle ipotesi, sarà costretto ad abbandonare la propria casa per far posto a un’opera oggettivamente inutile.
Preceduta dal remake della famosissima canzone «con ventiquattromila baci», la scena andata in onda su Blob è quella della sfilza di baci che il Ministro dei trasporti ha indirizzato al gruppo dei «disturbatori» riunitosi all’ingresso del ristorante che ha ospitato i festeggiamenti in onore del capo della Lega e del successo ottenuto per l’approvazione del Cipess. Nessun corredo alle immagini, solo il peso dell’umiliazione e dell’impotenza che qualcuno ha provato e la voce in corpo per respingerla e rispedirla al mittente.
Ma anche per le e gli organizzatori del corteo del 9 agosto quella scena è risultata insopportabile e, tramite un post facebook, hanno fatto sapere che: «Quel bacio sprezzante indirizzato da Salvini ai manifestanti giunti a contestarlo ha il carattere del paternalismo coloniale di chi disprezza le comunità locali». Nella riscrittura delle narrazioni che descrivono una realtà volutamente distorta – quella che criminalizza la contestazione mentre strizza un occhio alle forme di sopraffazione – occorre sempre ribadire dove si posiziona la «violenza», da dove parla, in quali gesti si nasconde e in quali non detti germoglia.
Mentre il dibattito politico e mediatico non sembra troppo interessato ai destini degli abitanti dell’area dello Stretto e si divide sulla fattibilità o sulla non fattibilità della grande opera, le persone che abitano tra le due sponde avrebbero, invece, l’urgenza di capire – prima che sia troppo tardi – a quali strategie politiche corrispondono e rispondono i piani tecnici.
Le rassicurazioni sulla fattibilità del Ponte non sono esattamente ciò che ridarà il sonno agli espropriandi – costretti a lasciare le proprie abitazioni – né a coloro i quali dovranno vivere all’interno di territori-cantiere. Ciò che ridarebbe il sonno agli abitanti delle due città dello Stretto è sapere se avranno ancora la possibilità di restare nel territorio in cui vivono, lavorano e hanno i propri affetti.
Prima ancora di sapere se il Ponte, così come (non) è stato pensato, crollerà o non crollerà, per la gente del posto sarebbe prioritario comprendere se riuscirà ancora a vivere e a respirare come ha fatto sinora. Anche se, va detto, sinora le cose non sono proprio andate benissimo ed è di questo che vorremmo, come comunità, occuparci, senza deresponsabilizzare la classe politica, ma certo indirizzandola. La città di Messina, così come altri capoluoghi siciliani, da anni è afflitta da una cronica e irriducibile mancanza di acqua. Ciò basterebbe a rivedere le reali priorità degli abitanti di un’Isola le cui condotte, ridotte a un colabrodo, disperdono più del 50% di acqua prima ancora di raggiungere le abitazioni.
Il 9 Agosto, le strade di Messina, sono state attraversate da migliaia di persone gioiose di ritrovarsi per esprimere il dissenso contro il Ponte, il suo immaginario, l’impatto concreto che avrà sulla popolazione locale e per esprimere i bisogni reali di chi vive a Messina e in Calabria nelle zone interessate dal progetto. I partecipanti arrivati da tutta Italia dal canto loro hanno chiaro che la lotta al Ponte è anche contro l’immaginario e le politiche del governo Meloni e del Ministro Salvini. Cosa insegnano decenni di lotta No Ponte?
Insegnano diverse cose, soprattutto a fare i conti e a misurarsi con i singoli territori, perché non tutti i territori sono socialmente e politicamente uguali e quindi comparabili, anche dal punto di vista del dissenso e della lotta.
Per capire esattamente cosa ci ha insegnato la lotta No Ponte in questi anni si deve anche allungare lo sguardo sul territorio, sulle sue caratteristiche geografiche e ambientali ma soprattutto economiche, sociali, «culturali» e politiche. Tra le altre questioni menzionate durante gli interventi del corteo del 9 agosto è stata ripresa, in un passaggio almeno, la vicenda dello «sbaraccamento» di Messina. In città esistono ancora centinaia di famiglie che vivono in baracca, mentre altre diverse centinaia sono entrate nel programma di risanamento. Non voglio dilungarmi sulle procedure del risanamento e sui criteri di assegnazione degli alloggi, ma c’è uno spettro che, indisturbato, ritorna sempre nelle vicende sociali e politiche della città di Messina: il clientelismo, la politica dei favori personali e dello scambio sono certamente tra gli ostacoli che impediscono alla gente di sentirsi parte di una comunità e di lottare insieme. Ma a comparire come uno spettro sulla città è anche un senso di profonda rassegnazione, dovuto a una componente sociale e a una classe politica che quasi sempre soffocano sul nascere qualunque tipo di iniziativa, e tendono a spegnere ogni forma di insubordinazione o di riscatto con la cantilena del «manifestare non serve a niente» o, peggio, «è nocivo perché ti metti contro quello che ti potrebbe aiutare». C’è sempre un tentativo di soffocamento delle istanze mediante il ricatto e la paura.
Ora, capisci bene che agire politicamente su un territorio ostaggio della logica del «dono» e della «riconoscenza» è un compito molto arduo che negli anni si è scontrato con la frustrazione di non riuscire a fare breccia. La lotta No Ponte in questo senso è, invece, una boccata di ossigeno: come hanno dimostrato i numeri del corteo del 9 agosto. La grandezza del movimento No Ponte, pur con tutte le sue fratture interne, consiste nella presenza e nei continui tentativi di radicamento nei territori, non solo in quelli drammaticamente coinvolti dal processo di espropriazione-asservimento-svendita, ma in tutta la città e, trasversalmente, all’interno di tutte le componenti sociali. La lotta No Ponte ci insegna quindi che è possibile fare breccia.
Mentre parliamo è in corso l’organizzazione di un’altra manifestazione, quella delle e dei proprietari delle Feluche (tradizionale imbarcazione per la pesca del pesce spada tipica dell’area dello Stretto) che hanno deciso di rispondere ai promotori della festicciola organizzata il 6 agosto per «salutare e dare il benvenuto» al ministro dei Trasporti, agghindando una di queste feluche con le bandiere della Lega. Un gesto che non è stato apprezzato (a proposito di memoria lunga) dalle altre proprietarie (perché anche le donne solcano il mare da queste parti) e proprietari di feluche, offesi dalla strumentalizzazione di uno dei simboli dello Stretto.
La lotta No Ponte è ormai la lotta di tutte e tutti e, a quanto pare, è la lotta che siamo disposti a fare per terra e per mare. Una terra e un mare che difenderemo con la lotta, come recita il nostro slogan. E che, sono certa, concedimi questo appunto personale, difenderà anche chi proprio quel tratto di mare amava più di ogni cosa e proprio lì si è immerso e se n’è andato per sempre.
*Martina Lo Cascio, sociologa, insegna e svolge attività di ricerca all’università di Palermo. È attivista di Contadinazioni e Autogestione in Movimento – FuoriMercato. Si occupa di agroecologia, scienza radicata, lavoro migrante e agricolture nella Supermarket Revolution.









