Gentile direttore,
ho seguito con attenzione la querelle che si è sviluppata sul suo giornale tra un cittadino che lamentava le inadempienze dell’ospedale di Cosenza e un medico che reagiva, rivendicando innegabili meriti, serietà e condizioni proibitive nelle quali sono costretti a lavorare medici e paramedici.
Credo che abbiano ragione entrambi e non discuto il legittimo risentimento del medico che, di sicuro, esercita il proprio mestiere con professionalità e senso del dovere.
Devo dire, tuttavia, che sono reduce da una bruttissima esperienza che si è appena conclusa – per fortuna positivamente – nello stesso ospedale e mi sono perfettamente ritrovata nelle situazioni così tanto ben descritte da Pasquale Rossi.
Circa due settimane fa, appena arrivata da Milano per una vacanza in Calabria, sono stata costretta a portare d’urgenza mio marito al Pronto Soccorso dell’Annunziata.
Una vera e propria discesa negli inferi. Sporcizia, pressappochismo, un caldo infernale, spocchia e arroganza di alcuni (sia chiaro: ho detto alcuni) medici, superficialità e maleducazione di infermieri, disorganizzazione. Non nego che sia difficile lavorare con un organico sottodimensionato, a fronte di un’affluenza oceanica di cittadini. Ritengo, però, gravissimo che ci si dimentichi troppo spesso della dignità di cui ognuno è portatore. Il malato non è un numero, non è la sua malattia, ma è una persona con le sue ansie e le sue paure, che ha il diritto di essere accolto con tatto e cortesia. E anche con educazione. Sia pure in presenza di strutture fatiscenti e di organico ridotto.
Non si deve mai perdere di vista l’umanità del malato, né affondare il coltello nella piaga della sua fragilità. Parimenti i parenti. I parenti non sono delle calamità da evitare, degli scocciatori indesiderati. Sono persone che soffrono e che hanno diritto ad essere informati. E meritano probabilmente dei resoconti meno evasivi e meno criptici di quelli che, nella maggior parte dei casi, alcuni (torno a dire alcuni) medici – bontà loro – erogano.
Per concludere, voglio esprimere la mia riconoscenza a quanti, nel deserto dell’indifferenza di molti, si rivolgono a malati e familiari con umanità, semplicità e gentilezza, e – perché no – con buon cuore. Sono delle mosche bianche, angeli che lottano con un malcostume e dei vizi ormai cronicizzati. E sono pochi. Mi spiace dirlo.
Sono una meridionale che vive nel Nord e questa mia recente disavventura mi ha insegnato che, dalle nostre parti, spesso ci si dimentica che il malato è titolare di diritti sacrosanti. Riconoscerli non equivale a concedergli un privilegio, ma è piuttosto un dovere di coloro ai quali il malato consegna la propria vita.
Mio marito ed io, prima di andar via, abbiamo espresso la nostra gratitudine ad uno di questi angeli che, pronto, ci ha detto: “Ma io ho fatto solo il mio dovere e voi avete esercitato i vostri diritti”. Chissà perché, dopo otto giorni di sofferenze, paure e umiliazioni non ne eravamo più consapevoli! Ci eravamo rassegnati. Come tanti cittadini che vivono nella nostra bellissima terra.
Gentile direttore, desidererei che pubblicasse questa mia mail e l’articolo (scritto da mio marito, Ivo Zùnica) che le allego.
Trovo che sia giusto dare voce alle difficoltà e alle paure che affliggono i cittadini per le condizioni di gravità nelle quali versa la sanità calabrese.
Sogno sempre di ritornare in Calabria, quando andrò in pensione. L’età della pensione, però, Lei mi insegna, coincide con il periodo della vita in cui si è più a rischio di acciacchi e di malori. Alla fine ci rinuncerò. Ne sono certa. Per legittima difesa.
La ringrazio per il tempo e lo spazio che avrà voluto dedicarmi.
Distinti saluti.
Annalisa Martino
L’amarezza d’un paziente impaziente
Trovarsi in vacanza in una città del Profondo Sud. Trovarsi addosso d’improvviso un attacco di lancinanti dolori addominali. Trovarsi nella necessità di correre all’ospedale più vicino. Trovarsi in un Pronto Soccorso simile a una bolgia dantesca.
Un Pronto Soccorso palesemente sottodimensionato rispetto alla domanda di un’utenza di ampiezza provinciale. Un Pronto Soccorso attraversato da proteste, lamenti, pianti, grida di dolore, liti ed alti guai. Un Pronto Soccorso in cui medici e paramedici sono quasi nell’impossibilità oggettiva di fronteggiare in maniera decente la domanda di assistenza. Un Pronto Soccorso nel quale ho trascorso, malamente accampato, un’intera nottata.
Un Pronto Soccorso nel quale le attese sono state lunghe anche quando non era necessario che lo fossero: “Alla fine, mi ricoverate? C’è un posto libero? Il medico ha detto che c’è un posto libero in reparto. O c’è o non c’è. L’ha detto due ore fa. Non è che ci vogliono due ore per sapere se il posto c’è o non c’è…” Alla fine sei costretto a litigare pure tu.
E poi finalmente trovarsi ricoverato in un reparto di chirurgia d’urgenza. Trovarsi in un ambiente e in una struttura così fatiscenti e degradati da essere iatrogeni, altro che cure: ti ci ammali peggio.
Trovarsi a pensare: ma che livello d’igiene può esserci qui dentro, stanti le condizioni in cui versano i gabinetti? Che livello d’igiene con materiale di ogni tipo accatastato lungo i corridoi?
Come faccio a stare tranquillo sull’assistenza, se nei “bagni” devo andarci con lo zaino, perché non c’è sapone, carta igienica, salviette ecc. insomma niente, tranne la tazza e il lavandino (e l’acqua fredda, cara grazia)? E non c’è nemmeno la luce che funzioni a dovere, ma solo a singhiozzo. E non c’è la porta che riesca a chiudersi in maniera decente. Come devo sentirmi accudito e garantito se alzo la testa e vedo l’intonaco cadente e le macchie di umido, e gli infissi decrepiti, e le tapparelle sbilenche, e le pareti ammalorate, e le maniglie devastate, e tutto in stato di abbandono e d’incuria? E’ un ospedale italiano, questo, o del terzo mondo?…
Ecco, poi c’è l’assistenza. Ora, grazie al cielo, il Buon Signore le persone perbene le ha sparse dovunque, ad ogni latitudine e longitudine, sia pure con parsimonia. Ma la gran parte della gente, ahinoi, è invece rozza e insensibile, e d’animo piccolo. E quindi, appena può (ossia, se non c’è chi glielo impedisce), ne approfitta: ne approfitta per esercitare un meschino e pietoso potere sui più deboli. E chi sono i più deboli in un ospedale? Ovvio: i pazienti, per definizione. E chi sono i più forti in un ospedale? Ovvio: medici e paramedici. Loro hanno il “potere”. Hanno simbolicamente (e non solo) su di te il potere di vita e di morte. Dunque, se sei un cretino preciso (primario, medico o paramedico, poco importa) è inevitabile che tu sia tentato di approfittare un tantino di tale esaltante circostanza.
Ecco, cominciamo con infermieri ed infermiere. Fanno irruzione nella tua camera e, sebbene tu ti sia rivolto loro usando il “lei” (perché così t’hanno insegnato a fare mamma e papà, da bambino, con le persone estranee, per rispetto), loro ti apostrofano disinvoltamente con un “tu”, ti trattano sbrigativamente o con discutibile cameratismo, come un deficiente incapace d’intendere e di volere. E tu che fai, ci litighi? A due di loro ho detto: “Senti, va’, facciamo che siamo amici e ci diamo del tu? Ma sì, dai, che è ‘sto ‘lei’ esagerato. E guarda, già che sei qui, sistemami un po’ la flebo che il liquido scende male”.
I medici invece si distinguono per l’elevato grado d’imbecillità civica e di arroganza medievale. Tranne le solite mosche bianche, s’intende. Perché, come detto, le persone perbene ci sono dovunque. Ed ecco dottori che si aggirano in crocchi o in confabulanti coppie sottobraccio, per corridoi e stanze d’ospedale, con l’aria di feudatari in visita ai loro possedimenti.
Ecco che ti apostrofano con frasi del tenore: “Beh, Mario, oggi come stai?”. Mario a me? Per non dire del “tu”! Ma che, siamo parenti, ci conosciamo? Poi tu cominci a rispondere alle loro domande e loro si distraggono, non ti ascoltano, si rivolgono all’infermiere perché gli viene in mente qualcosa.
Quando gli chiedi alla fine qualche lume sul tuo caso, ti rispondono in modo evasivo, a monosillabi, ti concedono solo qualche stentata chicca della loro dottrina, quasi tu, povero degente, fossi anche un povero demente e non fossi per definizione in grado di comprendere alcunché della loro Scienza Medica, quasi fosse inutile parlare con te dei casi tuoi; è il medico che sa, e tanto basta. E non ho usato sin qui un plurale intensivo parlando di medici: è un plurale reale.
Ma se invece questi analfabeti del senso civico li mandi energicamente in quel posto che dice Beppe Grillo, ecco – miracolo – che restano basiti, prima, e poi cambiano atteggiamento. E’ che non ci sono abituati troppo, qui, nel Profondo Sud, i Signori Medici ad essere mandati in quel posto: sono abituati invece alla tipologia del paziente-suddito. Ma se i pazienti cominciano a perdere la pazienza, anche i medici tronfi e spocchiosi cominciano, si vedrà, a darsi una regolata.
In ogni organizzazione, gli imbecilli (cioè i rozzi, gli arroganti, gli omuncoli che credono di avere in mano un pezzettino di potere e non un pezzettino di responsabilità nello svolgere un servizio), in ogni organizzazione, e forse nell’universo mondo, gli imbecilli pullulano e predominano numericamente. Se non c’è qualcuno che mette loro dei paletti (per esempio chi li dirige o l’utenza che li controlla) è la catastrofe.
Il racconto delle anzidette micro-nefandezze ospedaliere potrebbe arricchirsi d’innumerevoli dettagli. Lo chiudiamo qui per carità di patria.
Ivo Zùnica