Un’Italia conformistica prona alla propaganda
di Nadia Urbinati
Fonte: Domani
La Treccani online così definisce il conformismo: «Tendenza a conformarsi, anche solo in apparenza, a dottrine, usi, opinioni prevalenti socialmente e politicamente. Il conformista tende infatti a fare proprie, in modo passivo, le dottrine politiche e religiose seguite dalla maggioranza dei componenti del gruppo cui appartiene. In senso più ampio, il c. è visto come accezione negativa di chi si adatta facilmente alle opinioni o agli usi prevalenti, alla politica ufficiale, alle disposizioni e ai desideri di chi è al potere». Soffermiamoci su un punto: «Conformarsi, anche solo in apparenza».
Il consenso dei sondaggi
Adam Przeworski ha scritto recentemente che, per comprendere la pulsione autoritaria nelle democrazie, si deve uscire dalla dimensione istituzionale proposta a suo tempo da Juan Linz. Che si deve, cioè, analizzare la psicologia politica che fa capolino attraverso i sondaggi – numerosissimi nei governi con pulsioni autoritarie per la ragione, prevedibile, che devono dimostrare di essere amati, voluti, sostenuti. Una necessità che le maggioranze non autoritarie non hanno in tale intensità.
Quello di Przeworski è un argomento importante che ci invita a porre la seguente domanda: che cosa c’è dietro il consenso espresso nei sondaggi? C’è corrispondenza o discrepanza tra le convinzioni private e i segnali pubblici? E se c’è, perché tanto desiderio di apparire conformi?
Rieccoci al punto proposto da Treccani: «Conformarsi, anche solo in apparenza». Il che vuol dire che ciò che si dice in pubblico (o nei sondaggi) può non essere creduto. Conformarsi in pubblico è, dunque, come confessare di voler stare dentro la scia quotidianamente tracciata dal capo del governo e reiterata dai media. Si vuole, in sostanza, stare con chi sta dentro, non stare ai margini. Come osservava Alexis de Tocqueville, la democrazia come potere della maggioranza aspira a creare un’opinione pubblica che siain sintonia con il governo. Quasi a voler colmare la distanza tra dentro e fuori dello stato, quasi a creare una società totalmente univoca.
Dirsi antifascisti
Veniamo così al nostro paese, a quanto sia cambiato dal tempo della vittoria elettorale della coalizione che ci governa. Chi non ricorda le richieste a Giorgia Meloni di dichiararsi antifascista? Scrisse una lettera al Corriere della sera il 25 aprile 2023 per spiegare che non poteva dirsi antifascista, perché, con la fine del regime di Benito Mussolini, quell’idea non avevano più enso.
Anzi, usare l’antifascismo era lo stesso che fare il gioco dei comunisti, che nel Dopoguerra mieterono consensi su un’opposizione che non aveva altro senso se non tener fuori i missini dal governo della Repubblica. Quella lettura di Meloni fece discutere, e indusse alcuni a parlare del progetto della nuova destra come di democrazia afascista.
Ebbene, quella lettura, che allora sembrava periferica, oggi è quasi dominante. Opinionisti di quotidiani indipendenti (sic!) ripetono questa lettura come se fosse verità certificata.
Dirsi antifascisti è ora una vergogna. Che ci credano o no, che ci sia o meno discrepanza tra ciò che le persone dicono e ciò che pensano, non ha importanza. Quel che importa è che questa macchina – la macchina del doppio, la macchina della discrepanza tra pensare e dire – sia stata messa in moto e che proceda spedita. Perché non è importante che il pensare e il dire combacino. È invece importante che chi parla senta di dover velare ciò che il pubblico sembra non voler sentir dire. Meglio non dirsi antifascisti.
Distrazione di massa
Insomma, il governo con pulsioni autoritarie – ambizioni di comando, cioè – ha fatto tanta strada dal tempo di quella lettera al Corriere del 2023. E lo dimostra il consenso largo alla politica repressiva verso chi non si allinea.
L’Italia di oggi è conformistica e unidirezionale; con una forte attrazione per ciò che è in linea con il governo, con quel che dice Meloni nelle sue omelie, e che è molto più rilevante di quel che fa. La propaganda è così oliata da farci sentire insicuri di ciò in cui crediamo. Non saranno quelli dell’opposizione fuori della storia? E questa domanda ne solleva un’altra: quando gli intervistati dichiarano di sostenere Meloni, che cosa significa davvero questo “sostegno”?
Se la politica, quella autoritaria non meno di quella più genuinamente democratica, si misura attraverso la psicologia, la formazione delle convinzioni e, anche, i risultati delle politiche di governo, allora ha molto senso che chi governa voglia distoglierci dai risultati e dalle sue prestazioni effettive, che sono mediocri e poco convenienti per tanta parte di quel pubblico che assente. Il conformismo delle opinioni serve a questo.








