Vogliono farci emigrare di nuovo (di Salvatore D’Acri)

Cosa è stato realizzato, in Calabria, dagli anni sessanta ad oggi a sostegno dello sviluppo e dell’integrazione economica, sociale ed istituzionale, particolarmente riguardo al tema del lavoro?

Si può dire che poco o nulla è stato fatto in questi ultimi decenni per promuovere, innovare e rivitalizzare la società calabrese, con politiche sociali non assistenziali, da indirizzare verso bisogni prioritari e urgenti in grado di mobilitare tutte le risorse in termini di sostegno e creazione di nuovi posti di lavoro.

Infatti, il detto “si stava meglio quando si stava peggio” non può essere considerato esattamente una stupidaggine, se è vero che negli anni sessanta in Calabria, la grande migrazione si configurò come movimento di tipo temporaneo, con una forte inclinazione al rientro, e fu caratterizzata in larga parte dalla presenza di adulti, che destinavano massima parte dei propri guadagni alla famiglia rimasta nei paesi d’origine.

La crisi del latifondo dalle nostre parti ebbe come conseguenza l’emigrazione di centinaia di contadini poveri, il cui intento non era quello di abbandonare una terra incapace di sfamarli, ma quello di guadagnare denaro sufficiente a mutare la propria condizione sociale, acquistando della terra per costruire (spesso abusivamente) la propria modesta casetta.

Questo spiega l’enorme mole di “rimesse” cioè di denaro spedito in Italia dagli emigrati, indispensabile risorsa dell’economia in quel periodo. Il flusso di denaro proveniente dall’estero, infatti, permetteva all’Italia l’acquisto di materie prime e il pagamento dei debiti internazionali; perciò la maggioranza delle forze politiche non solo era favorevole, ma addirittura incoraggiava la migrazione di massa.

Inoltre, dove le tensioni sociali rischiavano di diventare esplosive l’emigrazione costituiva una valvola di sfogo, perché forniva ai contadini poveri una speranza di uscire dalla miseria.

Detto questo, ancora oggi ci troviamo in un tempo di miopia politica, se è vero che si vuole imporre come normale “una cultura al ribasso” nella quale non ci può essere spazio ne per l’equità ne per l’etica morale, così che i nostri figli che hanno la certezza di un disagio, hanno anche la volontà di sottrarsi al “ricatto della povertà” e soprattutto la consapevolezza di dover fuggire al più presto possibile dalla nostra regione.

Costretti anche loro come i loro nonni ad esplorare con mezzi propri realtà diverse dalla nostra, per il desiderio di darsi una chance dove è possibile trovarla, per inseguire quelle opportunità che qui sono oramai definitivamente tradite.

Cervelli o braccia che siano, la fuga è da una regione in crisi che non offre abbastanza posti e anche quando li offre (pochissimi) fa venire voglia di scappare, perché fuori c’è più meritocrazia e una classe dirigente sicuramente migliore della nostra.

Quello che racconto è un universo per molti aspetti noto ai suoi lettori, un mondo rivisitato narrativamente nel corso degli anni che si rifà (volutamente) alle forme arcaiche della cultura e della comunità, perché solo risalendo alle origini si può capire di più il presente.

Salvatore D’Acri