Cosa accade alla sanità pubblica? Due storie di ordinaria “follia”

(Silvia Truzzi – Il Fatto Quotidiano) – Il test di Alessia è positivo. Due barrette, ma questo è un buon esito: finalmente, dopo molti tentativi, è incinta. Non tutto però va come dovrebbe: due sabati fa sente che qualcosa non va, ha forti dolori addominali e decide di andare in ospedale a Sassari. Dopo mezz’ora di attesa all’esterno un’infermiera le spiega che, nonostante abbia già fatto due dosi di vaccino, per entrare serve un molecolare. “Siamo in un ospedale, non si può fare qui?”, chiede la ragazza. No, per avere il tampone bisogna andare in una struttura aperta dal lunedì al venerdì, e oggi è sabato. Alessia torna a casa con i dolori al ventre e il consiglio di di prendere una tachipirina e ripresentarsi con un molecolare negativo. Non le servirà: poche ore dopo abortisce in bagno.

Seconda storia dello stesso tenore, nel giro di pochi giorni, anche questa raccontata dal Fatto. “Ci spiace, ma non essendo vaccinata lei non può accedere alla prestazione”. Come avete letto sul giornale di ieri, così è sentita rispondere da un operatore del Policlinico Gemelli una paziente oncologica che da cinque anni combatte contro un carcinoma ovarico (che ogni tre mesi deve fare una ecografia di controllo e ogni sei una Tac). La stessa risposta è stata data a tutti i malati oncologici che, senza vaccino, hanno chiamato per prenotare una visita o un esame. Gli operatori hanno spiegato che per accedere alla struttura erano necessarie tre dosi o due ma con molecolare negativo. Questa procedura in realtà è quella richiesta ai visitatori dei pazienti ricoverati. Scoperto “l’equivoco”, grazie alle verifiche della nostra collega, i pazienti ai quali era stata negata la prestazione sono stati richiamati. Tutto bene? Non proprio.

Alessia ha presentato un esposto alla Procura di Sassari, e ha dichiarato: “Ciò che mi è successo è inaudito e non deve più accadere. So che ci sono tanti medici e infermieri in gamba, che fanno il loro dovere e sono sotto pressione. Nel mio caso è mancato un minimo di umanità”. È un’affermazione piena di buon senso e verità: siamo debitori a medici e infermieri che in questi anni di pandemia si sono sacrificati oltre l’immaginabile. Però non possiamo fermarci qui. La sanità è in sofferenza e dire che è tutta colpa dei no vax è una scorciatoia comoda e pericolosa perché consente ai responsabili di scaricare le responsabilità su altri. Perché il servizio sanitario non è stato riorganizzato – e finanziato – alla luce della pandemia? Gli ospedali vanno in tilt per mancanza di personale: com’è possibile, a questo punto? Sono interrogativi cruciali eppure interessano assai poco il dibattito.

Tutto ruota attorno al Pass – super, mega, ultra – e ai suoi meccanismi premiali di inclusione/esclusione. “Tu quante dosi hai?”; “E da quanto tempo?”: sono le uniche domande che ci si sente rivolgere. Eppure abbiamo capito che il vaccino, nemmeno con il booster, protegge dal contagio. Siamo stati totalmente risucchiati dalla spirale dei permessi e dei premi: così succede che un’infermiera ti chieda il tampone per accedere a cure d’emergenza. Oppure che gli operatori di un call center sanitario seriamente pensino che una persona malata per entrare in ospedale ed essere curata debba essere vaccinata. Ormai siamo tutti verificatori di Green pass: è diventata una patente di accettabilità sociale, perfino sanitaria. Già si discute se in caso di scarsità di farmaci o posti letto siano da preferire i virtuosi vaccinati. Molti sono favorevoli: siamo talmente assuefatti dal clima tossico dell’emergenza continua che nessuno, o quasi, si alza per dire: “Ma siete impazziti? Lo Stato organizzi le strutture sanitarie in modo da non lasciare morire nessuno”. Perché questo è un Paese dove vale la pena vivere.