La “cupola” Reggio-Cosenza: ecco come massoneria e servizi hanno ucciso Pietro Marrapodi. Il ricordo di Boemi

Salvatore Boemi

PREMESSA

A 25 anni di distanza dall’operazione “Olimpia”, l’ordinanza dell’operazione “Mammasantissima” firmata dal procuratore di Reggio Cafiero De Raho è un’autentica miniera per tutti e riprende quella ed altre vecchie inchieste. Sia di Cordova che di Boemi. Anche i giornali di regime o quelli al soldo dei servizi ci hanno sguazzato per giorni, ovviamente inserendo o escludendo gli stralci a seconda delle scuderie di lobby. I politici tremano, allo stesso modo della componente massonica e dei “colletti bianchi”: stanno uscendo fuori gli insospettabili, si va dritti al cuore, al livello più alto.


Ritorna lo spettro di Cosa Nuova nella quale la componente massonica più autorevole è quella del cosentino Ettore Loizzo, il più alto esponente della massoneria calabrese, reggente del Grande Oriente d’Italia nel 1993 nel bel mezzo della scissione aperta da Di Bernardo.

Correva l’anno 1995 e su questa organizzazione aveva puntato gli occhi il magistrato reggino Salvatore Boemi, un nome ricorrente quando si trattava di far saltare le coperture della massoneria deviata nel suo rapporto con la ‘ndrangheta.

Nell’ordinanza della DDA di Reggio Calabria ci sono dichiarazioni del collaboratore di giustizia messinese Gaetano Costa nelle quali si parla apertamente di Cosa Nuova.

“I legami tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta erano strettissimi – afferma il pentito -. Non so in concreto per quanto tempo nè con quali risultati operativi, ma si arrivò a progettare e a dare forma (nel periodo immediuatemante successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) a una superstruttura che comprendeva le due organizzazioni; la cosiddetta Cosa Nuova”.

Era una sorta di organizzazione mafiosa di vertice che ricomprendeva sia gli elementi di spessore e di peso di Cosa Nostra che quelli della ‘ndrangheta. Cosa Nostra serviva ad inserire in modo più organico, nel tessuto del crimine siciliano e calabrese, persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche”.

Ettore Loizzo

Boemi (correva l’anno`95) è tra gli estensori dell’elenco degli affiliati a «Cosa Nuova» – impressionante radiografia della rete di cosche vecchie ed emergenti – e alla massoneria calabrese, comprendente nomi di politici influenti di varia provenienza: i socialisti Gabriele Piermartini e Totò Torchia, l’ex comunista Ettore Loizzo, il segretario particolare dell’allora presidente del consiglio Forlani, Mario Semprini, e il notaio Pietro Marrapodi, ex Dc e Grande Oratore delle logge reggine.

Proprio Marrapodi è il protagonista tragico di una delle indagini più perturbanti condotte da Boemi. Scosso da una crisi di coscienza e uscito dalla Loggia Logoteta, Marrapodi comincia infatti a vuotare il sacco e a fare i nomi di quelli che «decidono segretamente i destini della gente», in Calabria e non solo.

Boemi lo mette così a confronto con il pentito Giacomo Ubaldo Lauro e con il procacciatore d’armi D’Agostino, cavandone un quadro dettagliato dei rapporti tra’ndrangheta, P2, Sisde e istituzioni colluse. Preoccupato di aver detto troppo, Marrapodi si rivolge (vedi intercettazione telefonica del 15 febbraio `94) a Vincenzo Nardi, uno dei tre ispettori inviati dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi a verificare l’attività di Mani pulite.

Due anni dopo, stremato e serrato in casa, decide di incontrare il giornalista Mario Guarino per consegnargli copia dei documenti depositati a suo tempo a Nardi (è il giornalista stesso a raccontarlo nel suo libro sulla `ndrangheta); ma l’incontro non avverrà, perché Marrapodi verrà trovato morto nella sua abitazione il 28 maggio `96, con il caso archiviato come «suicidio per impiccagione» e i documenti e i floppy – probabilmente non tutti, come insinua opportunamente Guarino – sequestrati dalla procura reggina.

Com’è stato ucciso Pietro MARRAPODI

Qualcuno dice che sia una leggenda urbana o metropolitana ma spesso e volentieri queste “leggende” altro non sono che la verità.

La notte tra il 26 e il 27 maggio del 1996, sono le ore tre, una Mercedes nera con tre uomini a bordo, si ferma in una zona, dove pare vi fosse una casa appartenente a un ex Maresciallo dei Carabinieri, in affitto ai cosiddetti servizi segreti.

Vicino, è in sosta una Fiat “Topolino”, con dei medici a bordo. Le tre persone si avvicinano agli occupanti della Fiat e li invitano ad allontanarsi.

Verso le ore 10.00 del mattino seguente, il notaio Marrapodi accompagna la moglie a fare la spesa. Al ritorno, sono circa le ore 12.00, il notaio avverte la moglie: sono nello studio, quando è pronto mi chiami.

Infatti, all’ora di pranzo, la signora chiama il marito, che non risponde. Scende nello studio e la scena che si presenta è sconvolgente. Il marito è legato con una corda al collo, appeso alla ringhiera della scala. In sostanza, è stato ucciso.

Sul luogo del delitto, il primo a giungere è un magistrato molto noto anche a Cosenza, che manda via tutti gli agenti delle volanti che erano presenti e apre la cassaforte, dove il notaio teneva i documenti tra i quali tutti gli atti di compravendita d’immobili della famiglia De Stefano. E’ in atto una furibonda guerra tra bande di magistrati.

IL CONFRONTO TRA MARRAPODI E IL PENTITO LAURO

E’ il 29 giugno 1994. Nel carcere di Catanzaro il sostituto procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Verzera, guida il confronto tra il pentito di ‘ndrangheta Giacomo Ubaldo Lauro e il notaio Pietro Marrapodi che ufficialmente morirà suicida il 28 maggio 1996 mentre era detenuto nel carcere di Reggio Calabria, accusato di associazione mafiosa.

Parlano di tutto e ad un certo punto Marrapodi irrompe riferendosi alla ‘ndrangheta: “Comunque, chiedo scusa signor Lauro, nella mafia di Reggio Calabria non è stata sottovalutata ad arte, è stata presentata all’esterno come un fenomeno minore…Ma il sottoscritto, il 6 dicembre – ora che mi ricordo – 1993 guardando in faccia il dottor Roberto Pennisi e il commendator Giuliano Gaeta, si è rivolto a Luciano Violante dell’antimafia e al ministro Conso e ha detto: “Anche se mi rivolgo a voi che potete ascoltarmi o meno, perchè è per poco che starete lì, vi debbo dire che io che sono notaio e che vivo in questo ambiente da 23 anni e so qual è il rapporto che passa tra ‘ndrangheta e mafia siciliana. I capibastoni ‘ndranghetisti dicono che i palermitani sono buccazzari: quindi ne ricavo il rapporto che passa tra discepolo e maestro; perchè maestra è la ‘ndrangheta”.

Rotto il fronte il pentito Lauro conviene: “Non avete detto un’oscenità. Perche non avete detto una oscenità?” Ma Marrapodi non ha voglia di interruzioni e prosegue: “E’ scritto ed è detto: il 6 dicembre in un convegno di 350 persone…Io ho indicato dove stava la cupola poi…”
A quel punto Lauro capisce che deve aggiungere di più: “Non avete detto un’oscenità e sapete perchè? Perchè tutti sanno che in America i siciliani sono stati scalzati dai Portoricani e dai cinesi e si sono rivolti in Canada alla ‘ndrangheta, dove il crimine lo possiede la Calabria o aLl’Australia dove il crimine lo possiede la Calabria…Non avete detto un’oscenità…”.
Letto alla luce di quanto sta emergendo dalla riapertura dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, anche questo dialogo sembra confermare che la stagione delle stragi tra il 1991 e il 1993 è stata una mossa diabolica sfruttata dalle cosche calabresi – De Stefano in primis – per scalare il ranking della criminalità economica mondiale.
ROBERTO GALULLO – IL SOLE 24 ORE – 

LE PAROLE DI BOEMI

Ecco la sintesi dell’intervento del magistrato Salvatore Boemi al convegno del 2015 organizzato dall’associazione reggina intitolata a Falcone e Borsellino nel corso del quale si parlò a lungo della tragica morte di Pietro Marrapodi.

 «Non ci sono stati mai grandi collaboratori di giustizia ma c’era un grande personaggio qui a Reggio Calabria – esordirà Boemi – che parlò e che era il notaio più importante della città, Pietro Marrapodi. Non era stata la mafia a collaborare con noi ma atti di indagini nostre e contrariamente alle previsioni, Marrapodi parlò. Non avesse mai parlato: sarebbe ancora vivo e avrebbe fatto solo qualche anno di carcere. Invece mise nei verbali la massomafia. Lui dichiarò, provò addirittura che mafiosi di questa città facevano parte delle logge massoniche cittadine e ci diede documentazione pericolosissima. Ricordo che 2 o 3 volte lo portammo davanti a Bruno Siclari, il primo procuratore nazionale antimafia, e lui svelò il connubio che per anni è pesato su questa città in modo agghiacciante, facendone qualcosa di molto più forte che a Palermo. Per tre volte Marrapodi fece mettere a verbale che se gli fosse accaduto qualcosa non si doveva pensare che si sarebbe suicidato (secondo la versione ufficiale, Marrapodi si suicidò, impiccandosi, il 28 maggio 1996, nda). Alla terza volta Siclari gli rispose: “Abbiamo capito!”. Non abbiamo saputo salvarlo, perché non si suicida una persona che esce la mattina con la moglie, compra del prosciutto e dell’emmenthal, va a prendere della carte che aveva dimenticato al piano di sotto e muore. Questo è uno dei segreti di questa città. Voleva consegnarci altri documenti e non solo quelli della città di Reggio».