Mafia-stato in Calabria. L’omicidio Losardo, Franco Muto e il clan degli insospettabili

Oggi che il boss Franco Muto è tornato a casa – è stato scarcerato l’11 febbraio scorso – e nella ricorrenza del 43° anniversario dall’omicidio di Giannino Losardo (21 giugno 1980), nel quale è certamente coinvolto senza essere mai stato condannato da nessun Tribunale, è inevitabile fare un tuffo nel passato e ricostruire tutta la sua ultratrentennale storia di impunità (interrotta solo pochi anni fa da un tragicomico processo in Appello successivo ad una altrettanta tragicomica assoluzione), che evidentemente “deve” continuare per lo stato italiano, sempre più ridotto a “barzelletta”. 

“La situazione della procura della Repubblica di Paola non può essere descritta e capita nella sua interezza senza far riferimento a una vicenda dolorosa che risale ormai a molti anni orsono ma che riverbera tuttora il suo peso su quell’ufficio, tanto che anche il procuratore generale ha ritenuto di dovervi fare cenno. Si tratta dell’omicidio dell’allora primo dirigente della procura, Giannino Losardo, ad opera di esponenti del clan mafioso comunemente detto, dal nome del suo capo, clan Muto. Il processo, concernente questo e numerosi altri omicidi, assegnato per legittima suspicione all’autorità giudiziaria di Bari, vide coinvolti anche l’allora procuratore della Repubblica Luigi Balsano e il sostituto Luigi Belvedere”.

Continuiamo la pubblicazione e l’analisi dell’ispezione del ministero di Grazia e Giustizia alla procura di Paola svolta dal magistrato Francantonio Granero nel 1991.

Il motivo principale di questa ispezione era rappresentato proprio dall’omicidio di Giannino Losardo, rimasto senza colpevoli nonostante lo svolgimento di due estenuanti processi.

Giannino Losardo
Giannino Losardo

L’ispezione, che si sviluppa in circa 300 pagine, non è mai stata pubblicata da nessun organo di informazione e ci restituisce un’immagine inquietante di quanto accadeva nella procura di Paola, coinvolgendo, oltre agli stessi magistrati, anche il presidente del Tribunale e i cosiddetti “colletti bianchi”.

“… Balsano e Belvedere furono assolti con formula piena ma è certo che quel processo e la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Bari che lo concluse, descrissero un clima e delle modalità di lavoro presso la procura di Paola e accertarono alcuni fatti che stendono ancora oggi la loro ombra su quell’ufficio. In particolare quella sentenza e ancor più i motivi di appello del pm, descrivono in maniera alquanto viva il clima esistente allora in procura, i rapporti di stretta intesa tra il dottor Belvedere e l’allora procuratore dottor Balsano e alcuni aspetti del comportamento del dottor Belvedere criticabili sul piano deontologico… Essi costituiscono ora un documento dalla cui lettura non si può prescindere in sede di inchiesta, perché contiene la descrizione di fatti (non ricompresi tra quelli che formarono oggetto di specifiche imputazioni) la cui veridicità è stata verificata con nuovi accertamenti…”.

GLI AFFARI DI BELVEDERE

“… Già allora – continua il magistrato ispettore – erano sorti dubbi sui rapporti di affari che il dottor Belvedere avrebbe intrattenuto con imprenditori del luogo ma soltanto adesso è emerso il tentativo – allora riuscito – del dottor Balsano di mettere a tacere queste voci impedendo che risultassero da un’informativa della Guardia di Finanza… Andato in pensione Balsano, il discorso finisce sempre per focalizzarsi sul dottor Belvedere. Questo fatto spiega come in effetti la sua presenza per vent’anni in quel posto, la apparente acquiescenza di Balsano, la giovanissima età, allora, del dottor Fiordalisi, che venne a ricoprire il secondo posto di sostituto nel dicembre 1987, la debolezza dell’attuale (riferito al 1991, ndr) procuratore capo dottor Arnoni, abbiano consentito al dottor Belvedere di improntare di se, in bene e in male, quella procura. Si può quindi concludere per una sostanziale identificazione tra la procura di Paola, istituita nel 1966 e il dottor Belvedere, che vi ricopre l’incarico di sostituto dal 1970”.

Losardo aveva trovato le prove di illeciti per miliardi al porto di Cetraro, di illeciti nei lavori di consolidamento nella gestione del mercato del pesce e del lassismo della procura nel combattere certi traffici marittimi funzionali all’arrivo di cocaina e di eroina.

Il clan Muto, in sostanza, grazie alla connivenza della procura di Paola, faceva entrare sul Tirreno, trasformato a tutti gli effetti in “zona franca”, capitali enormi che poi venivano riciclati in una serie di attività apparentemente regolari.Losardo, standoci dentro, lo aveva capito e ne aveva parlato con i compagni di partito, in particolare con il senatore Francesco Martorelli, il quale già prima che don Giannino morisse aveva sottolineato come ci fosse “un distacco sempre più profondo tra l’opinione pubblica e la procura di Paola”.

Cresceva la sfiducia e crescevano i sospetti. Anche perché Belvedere, il capo effettivo, all’epoca relativamente giovane dall’alto dei suoi 44 anni, con il suo atteggiamento da “sceriffo” avvalorava questo tipo di sospetti.

Girava con la pistola sistemata nella cintola e tutti dicevano che era diventato ricco perché prendeva i soldi del clan Muto.

Il diretto interessato, intervistato dagli inviati dei grandi giornali, diceva però che la sua leggendaria Lamborghini (cui si sarebbe aggiunta anche una Maserati) in fondo era di terza mano e la sua villa faraonica a San Lucido veniva pagata con la cessione del quinto dello stipendio.

La verità comunque era una sola: a Paola e su tutto il Tirreno in quegli anni dominava non solo il clan Muto ma più correttamente il clan degli insospettabili.

“Sicuro e spavaldo Francesco Muto, meglio noto come il re del pesce a Cetraro – si legge nella relazione di Granero – faceva il bello e il cattivo tempo: i giudici che avrebbero dovuto perseguirlo, con i loro atteggiamenti hanno consentito invece che la cosca prosperasse, che nel circondario di Paola si consolidasse “un potere mafioso che si struttura a mo’ di vero e proprio contropotere dello stato”. In generale nella zona, nei confronti del boss e degli aderenti alla cosca c’era un clima di copertura e di comprensione nel quale sono stati parte importante anche il comandante della capitaneria di porto di Vibo Valentia e il comandante della brigata della Guardia di Finanza di Cetraro…”.