Il Pd e il referendum: ritardi, imbarazzo e incomprensioni

di Andrea Fabozzi

Fonte: il manifesto

Mancheranno appena tredici giorni al referendum costituzionale quando, lunedì 7 settembre, la direzione nazionale del Partito democratico prenderà una decisione formale sull’indicazione di voto. Non c’è dubbio su quale sarà, il segretario Zingaretti ha già detto che il partito inviterà a votare Sì al taglio dei parlamentari, pur lasciando una – ovvia e inevitabile – libertà di coscienza ai suoi iscritti e militanti. Tutto l’interesse è su come Zingaretti motiverà questa scelta formale, in assenza di qualsiasi garanzia sulla legge elettorale e gli altri “correttivi” che il Pd aveva preteso “contestualmente” al taglio dei parlamentari, messi nero su bianco dalla maggioranza ormai quasi un anno fa.

L’imbarazzo è evidente ed è la prima spiegazione di questo ritardo clamoroso nel prendere una decisione ufficiale: nell’ultima occasione, quattro anni fa, la direzione del Pd di Renzi si riunì per decidere la linea sul referendum del 4 dicembre 2016 due mesi prima (il 10 ottobre). Il Pd arriva all’appuntamento dopo aver votato in Parlamento per tre volte contro il taglio dei parlamentari: il 7 febbraio 2019 al Senato, il 9 maggio alla camera e ancora l’11 luglio al Senato. Posizione ribaltata invece nell’ultimo passaggio, l’8 ottobre 2019 perché nel frattempo c’era stata la crisi del governo Conte 1, l’accordo tra 5 Stelle e Pd per far partire il Conte 2 e la richiesta di Di Maio di mettere al primo punto del nuovo patto di governo il sì definitivo alla riforma costituzionale.

Nel mese di agosto, poco alla volta, diversi esponenti del Pd – come il sindaco di Bergamo Gori e gli ex presidente della direzione del partito Orfini e Cuperlo – hanno cominciato a segnalare la loro intenzione di votare No. Lo stesso Goffredo Bettini, primo consigliere di Zingaretti, aveva avvertito che senza la riforma della legge elettorale, l’approvazione definitiva del taglio dei parlamentari è “pericolosa”. E solo pochi giorni fa il segretario è tornato a porre come condizione indispensabile l’approvazione, almeno in un ramo del Parlamento, della legge elettorale proporzionale. Legge elettorale che invece comincerà il suo percorso nell’aula di Montecitorio una settimana dopo il referendum, senza alcuna garanzia che la riforma proporzionale abbia i numeri per andare avanti. Eppure la condizione di spiazzamento in cui si trova il Pd era facilmente prevedibile, nonché favorita dalla decisione del partito di non opporsi nemmeno alla richiesta dei 5 Stelle di accoppiare – ed è la prima volta che accade – il voto sulla Costituzione a quello politico per le regionali (e alle amministrative). E’ questa l’unica “contestualità” che si è effettivamente realizzata, benedetta peraltro dalla Corte Costituzionale (anche se non nel merito), malgrado le ovvie conseguenze sia sul piano della regolarità della consultazione sia sul piano della informazione.