Alla fine giungemmo a Draghi
Il destino può mutare, la nostra natura mai
Arthur Schopenhauer
Alla fine giungemmo a Mario Draghi. Uno scenario evocato da tanti osservatori della politica italiana, di destra, sinistra o fuori da questi steccati. Il nome del potentissimo ex presidente della Bce, circolava da tempo come possibile “nocchiere” di un governo tecnico per un’Italia in piena tempesta pandemica ed economica.
Era così insistente e ricorrente l’immagine del professor Draghi dietro la fatica di tenere in piedi la baracca da parte del governo Conte, che, oggi, la convocazione del presidente Mattarella, con il pretesto del pericolo contagio in caso di elezioni, non sorprende nessuno. Si compie ciò che alcuni hanno sperato, altri paventato.
Dipende dai punti di vista, dalle proprie posizioni ideologiche, dall’idea che si ha del paese , del suo futuro.
La comparsa ufficiale di Draghi per “raddrizzare la barcarola italiana”, sembra naturale e non a caso, alla luce dello spintone di Renzi alla compagine esecutiva di cui ha fatto parte con ben due ministre: Teresa Bellanova ed Elena Bonetti.
Per molti, la posizione “scompiglia carte“ dell’ex premier toscano, con richieste apparse finalizzate più a accaparrarsi poltrone e ad avere aree strategiche di controllo della cosa pubblica, è una “pastetta” preparata ad arte per mandare all’aria un governo debole, caduto in disgrazia negli ambienti europei, e per fare subentrare un governo tecnico, gradito a Bruxelles, di “salvataggio nazionale” come accadde nel 2011, quando ci trovammo a guida l’indimenticabile Mario Monti. Insomma, una pianificazione che, come spesso è accaduto per la storia italiana, non verrebbe dall’interno, ma dall’esterno là dove si decide per noi, confermando la lampante irrilevanza politica dei nostri rappresentanti in parlamento.
Le pretese di Renzi che avrebbe fatto saltare il banco per le sue richieste impossibili, dunque sarebbero eterodirette, per mettere l’Italia sotto stretta tutela di uomini e donne di fedelissima osservanza europea e delle sue politiche. Politiche che hanno una chiara impronta neoliberista, con un’anima fortemente bancocratica e teutonica.
Se così fosse, prepariamoci ad una svolta rigorista. Non che usciamo da feste a base di champagne, dal momento che stiamo ancora smaltendo l’austerity montiana con i suoi epigoni, a cui, inopinatamente, si è aggiunta la mazzata del covid con tutte le reazioni a catena che sta provocando. Una cosa è certa: rialzarsi sarà durissima. Prestiti da restituire, con pochi miliardi di euro a fondo perduto, tra un Mes finora evitato e un Recovery Fund nebuloso, ci indebiteranno all’inverosimile. Firmeremo cambiali, come si diceva una volta, da adesso al 2070 circa, dunque per i nostri figli, nipoti e pronipoti. Questa è una certezza. Quello che è incerto è se i politici / tecnici di oggi e di domani, saranno in grado di gestire la montagna di soldi prestati, in cui ci sono anche quelli sotto forma di contributi vari che versiamo all’Europa, con effetti benefici sul sistema paese. Eh, sì: tra i miliardi da restituire ci sono soldi nostri, quelli che ci drenano da decurtazioni di servizi essenziali, da tasse, retribuzioni.
Se per un attimo pensiamo agli sprechi e agli inutili acquisti fatti dal supercommissario Arcuri, per restare ad inezie, quali le mascherine inservibili e i banchi girello ammazzaschiena, c’è da tremare.
Nell’ipotesi che la transizione ad un governo eletto dagli italiani, sarà davvero affidata a Mario Draghi, invece c’è da piangere.
L’ex allievo del grande Federico Caffè, non è un mistero che abbia voltato le spalle al suo illustre maestro da quando si è involato nelle sfere dell’alta finanza. Il suo curriculum vitae parla chiaro. Per rinfrescare la memoria, a chi lo osanna come l’unico capace di traghettare l’Italia fuori dalla tempesta, senza nulla togliere alla sua specchiata competenza in campo monetario (la politica del QE con cui ha immesso liquidità salvavita a paesi come il nostro o la Spagna, e ancora l’abile difesa dell’euro nel 2012 da un violentissimo attacco da parte della speculazione finanziaria internazionale), bisognerebbe rammentare una serie di fatti che lo hanno visto ricoprire incarichi di alto prestigio al tempo dei mercanti del patrimonio pubblico italiano (Amato, Ciampi, Dini, Prodi, Berlusconi, D’Alema) o tra gli artefici del fiscal compact.
E come dimenticare la famosa letterina privata, a firma sua e di Trichet, al governo Berlusconi nel 2011? Preludio all’imposizione del governo tecnico Monti, in assoluto il più feroce nei tagli al welfare state.
Lasciamo perdere quello che fu fatto alla Grecia, quando Draghi, a capo della Bce, interruppe l’ossigeno alle banche elleniche per punire un popolo che aveva osato dire no alle frustate europee. Dopo ci fu la Trojka con un nuovo memorandum a base di massacro sociale.
E una volta per tutte: la sua presenza sul Britannia nell’estate del 1992 è storia. Non è una leggenda. Ci sono report documentati e dettagliati su quanto avvenne, chi partecipò e cosa fu deciso sul panfilo di Sua Maestà Elisabetta II.
Non rassicurano certo le dichiarazioni simil keynesiane rilasciate il 25 marzo scorso al Financial Time da parte del nostro stimato professore Draghi. Occorre leggere tutto l’intervento e fare un’attenta analisi per cogliere, dietro le righe, la natura autentica del “salvatore della patria”. Natura che, come ricorda Schopenhauer non cambia, a differenza del destino che è inconoscibile.
Ma sulla fortuna, basta richiamarsi al nostro Machiavelli che nel Principe dedicò all’imprevedibilità della sorte, il XXV capitolo.
In sintesi, se esistono le incognite e le variabili dei casi e delle circostanze, l’intelletto umano li dovrebbe prevenire e limitarne i danni come si fa rinforzando gli argini dei fiumi, affinché la piena non colga di sorpresa e lasci solo rovine e devastazione. Buona fortuna a tutti…









