di Alessia Candito
Fonte: Repubblica
“Sono stato un poliziotto, un politico, un massone regolare e uno ‘ndranghetista”. È uomo dalle mille vite e molte facce, Seby Vecchio. E nell’ultima, da pentito, fa paura a molti, in Calabria e non solo, perché il suo è un racconto di un sistema che ha vissuto da protagonista. Come uomo di partito, delle istituzioni, delle logge, dei clan. Ruoli solo in apparenza in contrapposizione. Ma non a Reggio Calabria perché “il mondo dei clan, la massoneria, i servizi segreti – dice – ci vuole un nuovo nome per tenerli tutti assieme, perché stanno assieme”.
In aula, da testimone al processo Gotha, Seby Vecchio non ha alcuna esitazione, alcun pudore. Vestiva ancora la divisa – racconta al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e al pm Stefano Musolino – quando “per il boss Maurizio Cortese raccoglievo le estorsioni, lo rappresentavo alle riunioni e l’ho aiutato nel corso della latitanza”. Ed era uno dei politici più rampanti della destra reggina, ricorda quasi orgoglioso, quando si presentava a riunioni di giunta in cui “era già tutto preconfezionato. L’allora sindaco Scopelliti scherzosamente leggeva i punti all’ordine del giorno, ma era già tutto deciso”. Dai clan, ovviamente. Perché la democrazia era solo una farsa.
Esattamente la tesi alla base dell’inchiesta Gotha, che per la prima volta ha permesso non solo di individuare la direzione strategica della ‘Ndrangheta – il vertice della gerarchia dei clan attualmente conosciuta – ma anche alcuni dei suoi uomini. L’avvocato Giorgio De Stefano, condannato come tale in primo grado e in abbreviato. E il suo collega, Paolo Romeo, condannato a 25 anni in ordinario in primo grado. Due nomi che da quasi trent’anni saltano fuori nelle inchieste sul golpe Bogrhese, sulle stragi di mafia degli anni Novanta, sulla banda della Magliana, sul boom delle leghe regionali, ma solo di recente inquadrati e processati come massimi vertici dei clan.
Abito scuro, volto imperturbabile, Romeo era in aula quando il neo pentito Vecchio diceva di lui: “Era il dio della ‘Ndrangheta e della politica. Quando l’ho incontrato, è stato come se mio fratello incontrasse Ronaldo”. Motivo? “Tutte le decisioni passavano da lui”.
Non si tratta di storture relative ad una singola legislatura. Era un sistema – dice il pentito – che per decenni ha funzionato così. E magari lo fa ancora, se è vero che – si lascia scappare – “anche in occasione delle ultime elezioni comunali e regionali, abbiamo scommesso su chi verrà arrestato per primo”. Un rischio calcolato anche negli anni in cui Vecchio era uno dei protagonisti della politica cittadina, solo formalmente determinata dal peso politico di questo o quel partito. In realtà, spiega, a pesare era la rappresentanza di ‘Ndrangheta, con questo o quel politico a fare da alfiere al singolo clan.
L’ex sindaco di Reggio Calabria ed ex governatore della Regione Giuseppe Scopelliti, per i De Stefano. Il suo storico braccio destro, Alberto Sarra, attualmente imputato, per i Condello. L’ex senatore Antonio Caridi, a processo anche lui (ma assolto in primo grado), in rappresentanza – fa capire Seby Vecchio – di circuiti ancora più riservati, in cui coabitano pezzi da novanta di logge e clan, come lo storico boss Peppe Pelle. E anche lui stesso, ammette, era una pedina che serviva “per chiudere il cerchio su alcuni passaggi, perché bisognava tenere dentro anche i Serraino”.
Gli equilibri politici si definivano così. Non era un mistero, spiega, perché “tra noi se ne parlava liberamente”. Ma anche a Roma, ai massimi vertici dei partiti, la situazione era nota. Non a caso, la ricandidatura a sindaco di Scopelliti è stata decisa a Roma “negli uffici del gruppo di Alleanza nazionale alla presenza di Alberto Sarra, del senatore Valentini e di Umberto Pirilli” racconta Vecchio, che specifica subito “non si parlava di politica, ma di rapporti fra politica e ‘Ndrangheta”. E di equilibri da ristabilire, perché al suq degli appalti pubblici e delle commesse comunali, i De Stefano erano sempre i favoriti. Troppo. Altre famiglie storiche e di pari importanza come i Condello, pretendevano uguale trattamento. Desiderata, racconta Vecchio, che si sono tradotti anche in proteste di piazza durante un comizio in pieno centro a Reggio Calabria.
“La causa della contestazione era proprio questa – dice il pentito – Peppe (Scopelliti ndr) doveva mettersi in riga con le varie famiglie, doveva smettere di favorire così tanto i De Stefano, per questo i fischi”. A portare la pace, due riunioni a Roma. Una negli uffici del gruppo di An, una al cospetto dei massimi vertici dei clan coinvolti “in un convento vicino Roma, dove c’era la sorella di Paolo Martino, che era una suora”.
Alla fine, spiega “Sarra era molto contento perché da lì è cominciata la spartizione non solo degli assessori e delle liste ma anche dei dirigenti delle società miste”. E ad oggi non ne sopravvive una, perché tutte sono state sciolte per infiltrazione mafiosa. Anzi, hanno raccontato i processi, è sulla loro cannibalizzazione che sono stati stabilizzati gli equilibri fra i clan, con buona pace della qualità dei servizi nella città che da decenni è maglia nera per la qualità di vita.
Per accertarlo ci sono voluti anni, ma non è un caso. Gente come Scopelliti, Caridi, uomini dei clan come Mimmo Morabito, che di Vecchio era il nume tutelare, si muovevano in circuiti massonici occulti in cui le informazioni su inchieste e processi in corso filtravano regolarmente. Bastava attraversare lo Stretto e andare a Messina – racconta il pentito – dove all’ombra di logge che ufficialmente non esistono si incontravano politici, magistrati, avvocati, medici, professionisti, antenne dell’Aisi come Giovanni Zumbo, commercialista ed amministratore di beni confiscati, poi condannato come uomo dei clan.
“Ognuno di noi ha canali di informazioni riservati” dice Vecchio. “Io parlavo anche con un mio collega dei servizi segreti, che mi aveva avvertito anche dell’operazione Pedigree 1”. Morabito, che gli faceva da ombra, “aveva un maestro di loggia che lavora alla procura generale e lui personalmente aveva rapporti con i carabinieri”. E al pm che quasi incredulo chiede come sia stato possibile, Vecchio con assoluta naturalezza risponde “un poliziotto che ha fatto parte della ‘ndrangheta, ce l’ha davanti”. Insieme alla fotografia del fallimento delle istituzioni democratiche.