Draghi al Colle, Brunetta premier!

(DI FABRIZIO D’ESPOSITO E GIACOMO SALVINI – Il Fatto Quotidiano) – Il cimento è di quelli più eccitanti ché sottopone alla teoria la classica prima volta. E così studiosi ed esperti di varia estrazioni si confrontano da tempo sull’eventuale e inedito trasloco di un presidente del Consiglio al Quirinale. Mai accaduto in sette decenni e passa della nostra storia costituzionale. Sempre, appunto, che su Mario Draghi confluiscano entro le prime tre votazioni i due terzi dell’assemblea di Montecitorio formata dai parlamentari e dai delegati regionali (articolo 83 della Carta). Difficile, infatti, che il premier possa essere tenuto “coperto” fino al quarto scrutinio, quando basterà la maggioranza assoluta. E tenendo conto, comunque, che sul Migliore presidente in pectore aleggia come uno spettro il tormentone del Mattarella bis. Il capo dello Stato ha ripetuto fino alla noia che non vuole un secondo mandato – ha già trovato casa e sta preparando gli scatoloni – ma in un Parlamento fuori controllo e balcanizzato tutto può succedere. Senza dimenticare che ieri sera a Milano, alla tradizionale prima della Scala, il presidente è stato accolto da un’ovazione condita da gioiose urla inneggianti al bis.

Premesso questo, cosa accadrà in caso di elezione di Draghi? Quello che trapela dal Colle stesso spazza via le ipotesi più complesse o ardue, in particolare quella che prevede Draghi congelato al governo in attesa dell’insediamento e lo stesso Mattarella a fare le consultazioni. No, la strada è molto più semplice, secondo quanto riscontrato dal Fatto. Cominciamo dalla convocazione dal Parlamento in seduta comune da parte del presidente della Camera, Roberto Fico. In base al dettato della Carta (articolo 85), deve avvenire 30 giorni prima che scada il settennato del capo dello Stato uscente. Mattarella venne eletto il 29 gennaio 2015 e s’insediò il successivo 3 febbraio. Quindi il suo mandato terminerà il 3 febbraio 2022. Probabilmente, però, Fico convocherà i grandi elettori in una data tra il 18 e il 20 gennaio. Una volta eletto, Draghi dovrebbe dare immediatamente le dimissioni da presidente del Consiglio.

A quel punto, nel Consiglio dei ministri, prenderà il suo posto il ministro più anziano: il forzista Renato Brunetta, 71 anni, titolare di un dicastero senza portafoglio, quello per la Pubblica Amministrazione. L’indicazione proviene dal regolamento adottato con decreto del presidente del Consiglio il 10 novembre 1993 e che disciplina il funzionamento interno del Consiglio del ministri. Il ministro più anziano subentra qualora non ci sia un vicepresidente nominato, come nel caso di questo governo. Fatto questo passaggio, Draghi aspetterà il giorno del giuramento e dell’insediamento al Quirinale. Se ciò dovesse avvenire prima della scadenza del 3 febbraio, Mattarella darebbe le dimissioni come avvenuto già altre volte in casi analoghi. Una volta capo dello Stato nel pieno delle sue funzioni, a Draghi resterebbero altre due tappe istituzionali: ricevere le dimissioni di Brunetta e contestualmente avviare le consultazioni per formare il nuovo esecutivo.

A quel punto si dovrà formare un nuovo governo. Ed è in questo quadro che si inseriscono le trattative politiche. Un disegno politico – e il relativo gioco degli incastri – è già stato pensato talmente bene che ne è stato informato anche il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, braccio destro del presidente Emmanuel Macron, e i diplomatici che fanno riferimento alla Farnesina. Giancarlo Giorgetti, testa d’uovo del leghismo, ne è l’ideatore. Perché i vantaggi ricadrebbero, in primis, su di lui. In estrema sintesi il piano prevede questo: Mario Draghi viene eletto al Quirinale, Daniele Franco (attuale ministro dell’Economia) prende il suo posto a Palazzo Chigi fino al 2023 e al Tesoro va proprio Giorgetti. Il ministro dello Sviluppo economico e numero due della Lega poi, tra due anni, potrebbe aspirare a un posto da Commissario europeo, carica ambita già nel 2019 e sulla cui nomina si era consumata la crisi del governo gialloverde. Non è un caso, dunque, che Giorgetti sia uno dei pochi che sostiene ufficialmente l’ascesa di Draghi al Quirinale e sia stato il primo a farlo nell’intervista al libro di Bruno Vespa: “Sarebbe un semipresidenzialismo de facto” aveva spiegato il titolare del Mise.

Se Draghi ormai non fa più mistero di aspirare al Colle – e, dicono i bene informati, Giorgetti non parla mai senza prima consultarsi con lui – ad approvare il piano sarebbe anche Luigi Di Maio, che con il vicesegretario della Lega ormai ha un rapporto molto stretto, consolidato con l’insediamento del governo Draghi. I numeri due di Lega e M5S si parlano, creano scenari, si spartiscono il potere. L’idea di spostare Draghi al Colle, Franco a Palazzo Chigi e Giorgetti al Mef farebbe gola al ministro degli Esteri visto che a quel punto si libererebbe la casella del ministero dello Sviluppo economico che, secondo fonti leghiste, potrebbe andare alla dimaiana Laura Castelli. Che l’operazione sia nella testa dei protagonisti lo dimostra anche il fatto che ne siano al corrente anche gli alleati internazionali dell’Italia: lo scorso 25 novembre ne sarebbe stato informato anche Le Maire, ministro del Tesoro francese, durante un colloquio al Mise con Giorgetti e Franco in seguito alla firma del trattato tra Italia e Francia. Gli alleati chiedono stabilità all’Italia, soprattutto dopo l’uscita di scena della cancelliera Angela Merkel in Germania. In particolare adesso che ci sono i fondi del Pnrr da spendere.

Così Giorgetti in questi mesi ha ricevuto spesso Le Maire in via Veneto e il suo viaggio negli Stati Uniti è servito proprio per tranquillizzare Washington e per accreditarsi in vista dei suoi prossimi ruoli in Italia e in Europa. Sulla strada della realizzazione di questo piano, però, c’è un grosso ostacolo. Si chiama Matteo Salvini. Il leader della Lega ha già fatto capire, infatti, di voler eleggere Draghi al Colle ma per l’obiettivo opposto a quello di Giorgetti: staccare la spina al governo e tornare all’opposizione, in vista delle elezioni del 2023.Uno scenario che Giorgetti vuole scongiurare tant’è che, in un incontro riservato di pochi giorni fa con il leader della Lega, gli ha fatto capire che sia lui sia i governatori del Nord (e le truppe parlamentari al seguito) non lo seguirebbero all’opposizione. Se Di Maio non ha lo stesso problema con Conte – a cui Draghi al Colle e Franco a Chigi potrebbero anche andar bene –­anche l’ex capo politico del M5S vuole evitare le elezioni anticipate. Per questo da settimane mette in guardia da chi, come Salvini, vuole “il voto subito” tant’è che lunedì, dalla festa di Atreju, è arrivato a spiegare: “Sul Colle è più affidabile Giorgia Meloni che Salvini”. Come dire: almeno lei gioca pulito.