Le ultime ore di Messina Denaro

Ai pm che erano andati a interrogarlo dopo l’arresto che ha messo fine ai 30 anni della sua latitanza, ha detto, ironico, che se non fosse stato malato, nessuno l’avrebbe mai catturato. Il cancro al colon scoperto a fine del 2020, patologia che l’ha costretto a rinunciare alle cautele che fino ad allora gli avevano assicurato la libertà, è stato l’ultimo decisivo tassello del puzzle che gli inquirenti non erano ancora riusciti a completare. E seguendo la malattia e tutti gli stratagemmi adottati, compreso l’uso di un alias insospettabile, i carabinieri del Ros, il 16 gennaio, sono riusciti a prendere l’ultimo grande latitante di mafia, il boss Matteo Messina Denaro. In otto mesi le condizioni di salute del padrino di Castelvetrano sono peggiorate progressivamente fino a precipitare l’altra sera, quando i medici dell’ospedale dell’Aquila che l’hanno in cura hanno dichiarato il coma irreversibile, rendendo noto ai suoi legali che non avrebbero continuato ad alimentare il paziente che aveva espressamente chiesto di non essere rianimato.

Cala il sipario, dunque, sulla storia del capomafia stragista che non si è mai pentito. Al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e all’aggiunto Paolo Guido, che gli dava la caccia da 15 anni, ha detto, netto, da subito, che non avrebbe mai collaborato con la giustizia. E così è stato. Messina Denaro, cortese, educato, ha seguito il classico copione dei capi di Cosa nostra: negare tutto quel che si può. E al termine del lungo colloquio coi magistrati ha anche ringraziato la Procura, lo Stato, per avergli assicurato le cure di cui aveva bisogno.

Nel supercarcere dell’Aquila al boss è stata allestita una sorta di infermeria attigua alla cella e lì, seguito costantemente da una équipe di oncologi e infermieri, è stato sottoposto alle sedute di chemioterapia che aveva iniziato, da uomo libero, alla clinica Maddalena di Palermo in cui a gennaio è stato arrestato.
Poi i due interventi chirurgici, l’ultimo dei quali ad agosto, che hanno aperto la strada del non ritorno. Messina Denaro è stato ricoverato nel nosocomio abruzzese, nel reparto detenuti, e non è più tornato in carcere. Nelle ultime settimane è stato autorizzato a incontrare alcuni familiari, ma non ha voluto vedere la figlia Lorenza alla quale, però, dopo anni di dissidi, ha dato il suo cognome: ieri la giovane era comunque al suo capezzale. Il boss, ormai a tratti poco lucido, da giorni non era più in condizione di sopportare la chemioterapia. I medici l’hanno prima sottoposto alla terapia del dolore, poi, su sua richiesta, l’hanno sedato. Fino al coma.

Ai magistrati, per spiegare il cambio di passo sulla gestione della latitanza, ha citato un proverbio ebraico: «Se vuoi nascondere un albero, piantalo in una foresta». «Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua… allora – ha detto – mi sono messo a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta». Una scelta resa possibile dalla fitta rete di complicità di cui ha goduto fino alla fine: dalla fidata sorella Rosalia, nella cui casa è stato trovato una sorta di diario medico che ha svelato ai magistrati i problemi di salute del padrino conducendoli alla sua cattura, ai tanti favoreggiatori di Campobello di Mazara, il paese in cui il boss ha trascorso gli ultimi anni con l’alias Andrea Bonafede. Uomini e donne a disposizione, molti dei quali ora detenuti. Nessuno di loro ha accettato di collaborare con la giustizia. Fedeli al capomafia per cui per anni hanno rischiato l’arresto. Resta ora ai magistrati il compito di ricostruire i 30 anni di latitanza dell’ex primula rossa di Cosa nostra, i suoi affari milionari e, soprattutto, chi l’ha coperto.