“Mentre ero in carcere, dal 2011, ricevevo qualche informazione da fuori, qualche lettera criptata, dai Bonavota. Stavo benissimo, non avevo nessun problema, tutte le informazioni che mi arrivavano erano rassicuranti sul fatto che avevo il loro sostegno per tutto, pagavano migliaia e migliaia di euro per periti e avvocati. Io ho cambiato radicalmente vita, altrimenti con i Bonavota ci ero legatissimo, li ho amati. So che non potranno mai capirlo quelli che mi stanno ascoltando, ma forse è l’unica famiglia che mi ha rispettato e sostenuto veramente”. Così, tempo addietro, nel maxi processo “Rinascita Scott” l’ex boss vibonese, dal 2016 collaboratore di giustizia, Andrea Mantella. Tutti i soldi, specifica, “li prendevano i miei familiari per sostenere mia figlia, per tutte quelle cose lì”. “Ero esentasse in pratica – sottolinea – non pagavo niente”.
Le ramificazioni in Piemonte e in Canada.
Rispondendo alle domande del pm Antonio De Bernardo sulle famiglie di ‘ndrangheta del Vibonese, il pentito ha spiegato che il clan di Sant’Onofrio dei Bonavota “parte da Vincenzo Bonavota, pupillo di Antonio Pelle detto ‘Gambazza’, che aveva anche altre amicizie nella Locride ed era amatissimo da tutti gli ‘ndranghetisti. Ha fatto un doppio locale, uno a Sant’Onofrio e uno a Toronto in Canada. Poi i figli hanno fatto un triplo clan: Sant’Onofrio, Toronto e Carmagnola (Torino). Li ho lasciati attivi come clan al 101%. Si figuri se per me era un problema sapere se era attivo o non attivo dopo un sacco di omicidi che abbiamo fatto insieme. Con gli omicidi l’associazione mafiosa passa in secondo piano”. In altre parole: “Se sapevo egli omicidi figuriamoci se non sapevo dell’associazione mafiosa”.
“La parte più dolorosa della mia collaborazione”.
“Io ero a tutti gli effetti con i Bonavota – evidenzia Mantella – mi hanno sempre tenuto in considerazione. Per me è la parte più dolorosa della mia collaborazione perché gli volevo bene, li stimavo, li ho sempre amati e non li ho mai traditi prima di collaborare, non ho mai parlato male. La locale era composta da Pasquale, Domenico e Nicola Bonavota, Francesco Fortuna, Domenico Cugliari alias ‘Micu i Mela’, Bruno Cugliari, poi Giuseppe e Onofrio Barbieri. I vertici erano questi, io mi rapportavo personalmente con questi, poi avevano i loro scagnozzi ma io non è che avevo rapporti con i ragazzi”. Spiegando inoltre che erano attivi su Sant’Onofrio, poi si sono spostati su Pizzo, Maierato e nella bassa Filogaso. “Io li ho lasciati così ma si sarebbero presi tutto nel circondario – chiosa il pentito – non c’è trippa per gatti”.
“Per l’eutanasia non serve la Svizzera, basta andare da Accorinti”.
Il collaboratore di giustizia ha poi parlato anche del territorio di Zungri, che “insieme al territorio del Monteporo e limitrofi, e Rombiolo“, era “di dominio di Peppone Accorinti con i suoi due fratelli”. “Nel suo territorio era il capo assoluto, non si muoveva foglia se non voleva lui. Tecnicamente però non so la sua struttura mafiosa com’è composta, perché non facevo parte della sua compagine”. Ricordando che Giuseppe Accorinti era un componente della cosiddetta ‘caddara e arrivando a usare una frase forte, ma sicuramente emblematica, di quello che aveva definito un boss sanguinario perchè “dove c’è sangue c’è anche Peppone Accorinti”: “Se uno vuole fare l’eutanasia non serve andare in Svizzera, basta che vada da Peppone Accorinti e lui ti fa fare una morte dolcissima, ha questa nomea”. Fonte: Zoom24