Non basta un’assoluzione per assolvere Nicola Adamo

Non basta un’assoluzione per assolvere Nicola Adamo perché c’è una distanza profonda – a volte incolmabile – tra ciò che stabilisce un tribunale e ciò che racconta la verità storica. La recente assoluzione di Capu i Liuni nel processo Rinascita-Scott non cambia la percezione che gran parte dell’opinione pubblica ha costruito negli anni attorno alla sua figura. Non basta una formula giuridica per cancellare il peso di una carriera politica segnata da opacità, intrallazzi, rapporti ambigui, e da una presenza costante nei meccanismi più oscuri del potere calabrese.

Nicola Adamo non è solo un politico assolto: è, prima di tutto, il simbolo di una stagione che ha avvelenato il senso stesso della rappresentanza. In Calabria, dove ogni scelta politica si intreccia con equilibri consolidati e interessi trasversali, la figura di Adamo ha incarnato per anni un modello di gestione del potere che ha poco a che fare con il servizio pubblico e molto con il controllo, la fidelizzazione, la costruzione di reti personali. E in questo senso, anche senza condanne, resta una responsabilità profonda e non eludibile.

Il giudizio morale, infatti, non si celebra in aula. Si forma nel tempo, si sedimenta nel vissuto collettivo, si scolpisce nei comportamenti e negli effetti che certe logiche di potere producono nella vita delle persone. In questo specchio, Nicola Adamo non appare come un amministratore esemplare, ma come il prodotto di un sistema che ha saputo proteggere se stesso più che rispondere ai bisogni dei cittadini. Un sistema che ha fatto della continuità la sua arma, e del consenso costruito a tavolino il suo scudo. Il problema non è il reato, ma il metodo. Non è solo ciò che si riesce a dimostrare in sede penale, ma ciò che si costruisce nel tempo, alimentando sfiducia, rassegnazione, chiusura. Nicola Adamo – al di là delle sentenze – continua a rappresentare quel metodo. Un modo di fare politica che ha svuotato di senso le istituzioni, che ha reso normale l’anomalia, che ha tolto dignità alla parola “merito”.

E allora, alla fine del processo resta la domanda più semplice e più scomoda: chi è Nicola Adamo? Non ce lo dice una sentenza. Ce lo dice la memoria di questa terra, ce lo dice la Calabria che ha visto, sentito, subito. La sua assoluzione non cancella ciò che ha rappresentato, né le dinamiche che ha alimentato. Il suo nome continua a evocare un modo di intendere la politica come strumento di controllo più che di servizio, come gestione privata dell’interesse pubblico. E questa “sentenza” – pesante, ingombrante, mai davvero smentita – resta tutta sulle sue spalle.