L’Italia degli yacht e l’Italia dei barconi
di Orlandino Greco, sindaco di Castrolibero
È bello ed entusiasmante vedere come i mari italiani, in questa estate, siano sempre di più meta turistica dei ricchi magnati internazionali. Le acque nazionali sono sempre più circumnavigate da yacht immensi, vere e proprie città galleggianti, appartenenti a personaggi come Bezos, Jordan, Tom Cruise e tanti altri. Uno spettacolo che affascina e al tempo stesso interroga. Quelle barche non sono soltanto lusso: sono il simbolo di una ricchezza che si concentra nelle mani di pochissimi, di un divario sociale che appare ogni giorno più evidente.
Ed è qui che il pensiero corre a Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga, capolavoro ambientato nella Sicilia al tempo in cui la nobiltà, grande proprietaria terriera, viveva ormai una fase di decadenza, mentre la borghesia arricchita cercava di affermarsi. Gesualdo Motta era un muratore che, con il sacrificio di ogni affetto, riuscì a diventare imprenditore e possidente di terre. La ricchezza era il suo Dio, il suo unico scopo, tanto che il matrimonio con Bianca Trao, nobile decaduta, rappresentò per lui l’apice della scalata sociale. Ma quel “Don” davanti al nome non bastò mai a dargli appartenenza: i nobili lo disprezzavano, i contadini lo invidiavano, persino la figlia si vergognava del cognome del padre. Alla fine della vita, sfruttato da tutti, abbandonato e malato, Gesualdo muore nella più nera solitudine.
Il parallelo con i miliardari di oggi non è biografico, ma simbolico. Le navi che solcano il Mediterraneo sono come i poderi e i palazzi di don Gesualdo: monumenti all’accumulazione, segni visibili di un benessere smisurato che crea distanza invece di unire. E come nel Vangelo, non è la ricchezza in sé a essere condannata, soprattutto quando è frutto di lavoro e sacrificio, ma l’uso che se ne fa: il ricco Epulone non viene giudicato per i suoi beni, ma perché non vede il povero Lazzaro alla porta.
Oggi, da una parte c’è chi viaggia su yacht che consumano in un giorno quanto un intero quartiere in un mese; dall’altra c’è chi affronta lo stesso mare per sopravvivere, su barconi fragili che spesso non arrivano mai a riva. Due mondi che condividono lo stesso orizzonte blu, ma che non si sfiorano mai.
E il rischio è che la nostra società diventi sempre più simile a quella raccontata da Verga: divisa, incapace di generare comunità, con ricchi sempre più soli e poveri sempre più emarginati. Forse allora la sfida del nostro tempo non è condannare chi possiede, ma ridare valore a ciò che ci tiene insieme: il lavoro, la dignità, la cultura, la solidarietà.
Come Salomone nella sua preghiera, non dovremmo chiedere né la ricchezza, che indurisce il cuore, né la miseria, che umilia l’uomo, ma soltanto il “necessario”, giorno dopo giorno. Perché i mari d’Italia, che hanno visto nascere la civiltà mediterranea, non diventino lo specchio di una distanza sociale incolmabile, ma tornino a essere spazio di incontro, di bellezza condivisa, di possibilità per tutti.









